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Tanto è brutta, sciatta, non ragionata e male immaginata la mostra di Vivian Maier alla Palazzina di Caccia di Stupinigi [fino al 12 gennaio prossimo], tanto sono belle le fotografie esposte. Un allestimento che sa di improvvisato, nelle vecchie cucine della Palazzina, più da ripostiglio che da esposizione. È un peccato l’illuminazione delle fotografie ed è un peccato la loro disposizione, troppo vicine tra loro oppure appoggiate a un muretto in penombra e con i fari disposti alle spalle dei visitatori. Nessuna logica, nessuna cronologia. Ed è un peccato che il video documentario su Vivian Maier venga proiettato in un angolo inadatto, lì nei sotterranei, con i sottotitoli in italiano coperti dalle teste di chi ti siede davanti e la guida che dietro di te istruisce a voce altissima il suo gruppetto di visitatori. Quella stessa guida che chiede gentilmente a chi non ha pagato di non seguirla [non la sto seguendo, ma dove vado, di grazia fiorita, che qui non c’è posto?].
È tutto un peccato, perché le foto sono bellissime. Se poi fossero disposte in ordine cronologico di scatto testimonierebbero un percorso artistico e un’evoluzione stilistica che così sono solo intuibili con fatica. Il bello del lavoro della signora Maier sta nella sua spontaneità, nella mancanza di sovrastrutture. Guardo il mondo, lo immagino in un rettangolo, scatto. Clic.
Sono ritratti, scene di vita quotidiana, persone. Ma anche oggetti, mani, bambole gettate via in un cestino, cataste di giornali della domenica pronti per essere venduti, muri, insegne, ponti, automobili, Kirk Douglas.
La storia di questa donna di cui non si sa quasi nulla, nata nel 1926 e abbandonata dal padre a quattro anni, vissuta prima con la madre tra Stati Uniti e Francia e Canada e dopo da sola lavorando come bambinaia per vivere e fotografare fino alla morte nel 2009, è una storia di misteriosa normalità, sotterranea e romanzesca, da letteratura statunitense di inizio millennio. Una storia di silenzio, una storia sordomuta. Una storia raccontata dal  rigattiere che un giorno per caso comperò il contenuto del deposito dove la signora Maier custodiva le sue cose e per il quale non aveva più pagato l’affitto negli ultimi anni della sua vita. Da lì la scoperta dei bauli pieni di foto e di rullini ancora da sviluppare [?!]: il tesoro.
Le fotografie rivelano grande talento compositivo e uno sguardo profondo sulla realtà, ma anche abilità tecnica, con l’ossessione degli specchi, i giochi di riflessi [la molteplicità del reale], le ombre. Molti gli autoritratti, nei quali Vivian Maier non sorride mai. Il più delle volte la sua è un’immagine riflessa da una vetrina o da uno specchio, anche scomposta e presentata da più angolazioni con diversi dettagli. Altre volte è un simulacro di sé fatto di cappotto e cappello. Spesso si tratta della sua ombra, che ruba lo spazio chiuso dell’immagine entrandovi, che si adagia su un prato fiorito o che copre un manifesto pubblicitario [Il Paradiso Può Attendere]. L’ombra, che rivendica la presenza della persona, che afferma la sua esistenza in vita al di fuori dell’immagine stampata. L’ombra. Quella che ci fa dubitare, quella che fa sì che ci chiediamo: ma Vivian Maier è vissuta davvero?

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