“Dottori, da Cupramontana. Faccio il Verdicchio.”
tempo fa, da qualche parte, stavo seduto su un muretto mentre il sole tramontava. inverno.
con me sedeva un amico, produttore di vino. sotto il muretto c’era [c’è] un enorme cespuglio di salvia, intorpidito dal freddo, e una vigna bellissima, circondata dal bosco.
chiacchieravamo.
di chi fa il vino, di chi lo assaggia, di chi lo consuma, degli enologi.
mi disse: non bisogna mai fare entrare gli enologi in cantina. lì ci sono i segreti.
più tardi mi portò ad assaggiare un vino rosso che riposava in una piccola botte.
puzzava un po’. glielo dissi.
mi sorrise: “se ci fosse qui l’enologo direbbe “presto! stabilizziamo! aggiungiamo un po’ di questo prodotto! e un po’ di quell’altro!”. e non va bene.”
bevemmo. in bocca quel vino in divenire era davvero buono.
e, dopo cinque minuti nel bicchiere, non puzzava più.
sorrise di nuovo: “hai visto? il vino aveva qualcosa dentro che doveva buttare fuori. gli hai dato tempo e lui si è liberato. senza l’enologo. ah!”
ho bevuto i vini di corrado dottori [che con un lapsus non indenne da contatto con la realtà ogni tanto chiamo dettori] per la prima volta a verona.
avevo letto che erano interessanti, qualcuno li diceva anche buoni, e ne ero curioso.
mi colpì la sua faccia da d’artagnan, da ragazzo anche se siamo quasi coetanei, il suo parlare con tono calmo, [forse stanco per qualcosa], come di chi non ti conosce né vuole convincerti di qualcosa.
sopratutto mi colpì il fatto che, quando passai da lui, stava e versava i suoi vini al di qua del banco di assaggio.
dove ero io, dalla parte di chi beve.
il titolo di questo breve libro può sembrare una dichiarazione programmatica, invece è l’approdo di un percorso. sembra sottendere che gli enologi siano il male assoluto, invece segue il vecchio precetto di vita irvinghiano [le regole della casa del sidro. almeno una volta nella vita, leggetelo]: imparare le regole per poi decidere se e come seguirle. [se si vuole capire meglio il perché del titolo è necessario arrivare a pagina 126].
è una serie di riflessioni personali, ognuna che parte da una parola evocativa [la prima è agricoltura, l’ultima è vita] e che si sviluppa corredata dall’esperienza di dottori.
alla fine del ‘900 [diamoci una tono da romanzo, male non fa], dottori capisce che la sua strada non è il lavoro in banca a milano, che la sua strada è la terra. suo padre ha un po’ di vigna nelle marche, la sua compagna è d’accordo con lui, i due caricano l’auto e partono.
non ci si aspetti un racconto tradizionale, né tantomeno romantico e bucolico: come diceva quello, la terra è bassa.
dottori parla, raccontando per episodi, senza cronologia. dice delle difficoltà, delle preoccupazioni, della fatica, dei dolori grandi, lasciando però tutto in sottofondo. quello che conta qui è la sua filosofia.
non dà nulla per scontato. racconta come è arrivato a capire cosa voleva fare e spiega come ha fatto a realizzarlo.
non è un integralista. fa un vino naturale ma ammette di apprezzare anche alcuni vini cosiddetti industriali, non è biodinamico ma ritrova aspetti positivi nella biodinamica, è attratto dalle intuizioni di slow food ma ne riconosce il limite.
il punto centrale di questo libro è la responsabilità che viene affidata a chi lavora la terra per il futuro del pianeta. ma il taglio che dottori dà a questa questione non è [sol]tanto ecologista.
il suo è un discorso che valorizza la diversificazione e la qualità del vino [e di ogni prodotto dell’agricoltura] senza isterismi o talebanesimi, lontano dalle mode. e ha anche un altro pregio, rispetto a molti che si affannano a parlare di vino naturale e globalizzazione: dottori è laureato in economia politica.
il vino visto nell’ottica del sistema economico generale.
le debolezze strutturali del sistema capitalistico, evidenti a tutti nella crisi economica attuale [che dottori, correttamente, identifica come strutturale e perciò più profonda, al pari delle grandi crisi economiche del passato], coinvolgono necessariamente anche il settore dell’agricoltura. l’idea che il mercato possa regolarsi da solo, tipica del neoliberismo, si è rivelata infondata. il risultato è che oggi l’economia è diventata prima finanziaria e poi produttiva, accrescendo la disuguaglianza tra classi sociali e la sperequazione nella distribuzione della ricchezza. eppure la storia insegnerebbe che ogni crisi economica, al di là delle minchiate da spot radiofonico attribuite ad einstein, porta prima di tutto a concentrare ulteriormente i capitali.
l’intervento dello stato sarebbe necessario ed è assente, al grido di viva il mercato, viva il liberismo.
beninteso, nonostante una iniziale timidezza nell’esprimere il concetto, proseguendo nella lettura diventa evidente e diretta la critica al capitalismo [“fabbrica di infelicità”] e, sopratutto, alla strada che il capitalismo ha intrapreso dal secondo dopoguerra. un sistema che corre dietro ai suoi errori senza cercare di correggerli. un sistema che formalmente interpreta il cammino dell’economia per quello che risulta subito evidente, trascurando le necessarie implicazioni future. l’orizzonte temporale è improntato, forse per limitatezza di ragionamento e sicuramente per necessità democratiche [=elettorali], al breve periodo. è il problema grosso di ogni governo nazionale. e se, per rincorrere un modello che perde i pezzi, in europa si favoriscono la grande impresa e le grandi multinazionali [ma pure farinetti: chi era costui?], automaticamente si penalizza la piccola impresa [il contadino con due ettari di vigna].
dottori crede nella possibilità di cambiare e qui sta, secondo me, il limite del suo ragionamento. sono scettico sulla realizzabilità dei modelli proposti nel libro. sistemi troppo chiusi che potevano funzionare [male] in un’economia pre-industriale e che nel medio periodo sono molto rischiosi anche per chi li abita, privi del contatto con altre economie, con altri settori. è vero che le scienze economiche non si occupano dell’agricoltura e tralasciano la terra come fattore di produzione, ma è pure vero che l’economia non può essere solo agricoltura.
ma dottori è un utopista. è un anarchico. per questo mi piace.
per come l’ho raccontato sembra un piccolo trattato di macroeconomia.
non lo è affatto. i temi sono i più vari e tutti ruotano attorno al vino e alla vita.
al libro potrei fare anche qualche critica di forma, in parte dovuta a una correzione di bozze non sempre attenta. sono dettagli.
non è il vino dell’enologo è un libro intelligente e di facile lettura, mai noioso anche grazie alla presenza dell’autore nelle pagine, fruibile meglio da chi ha qualche minima nozione di agricoltura o di enologia e di economia, ma sempre molto comprensibile.
il suo pregio principale sta negli stimoli che fornisce al lettore. molte domande, poche risposte.
le cose possono essere buone e possono essere cattive, il vero male risiede nell’ortodossia di pensiero.
l’importante, sempre, è pensare con la propria testa.
“Ci divertiamo con l’azione rivoluzionaria del pensare”.
Non è il vino dell’enologo. Lessico di un vignaiolo che dissente.
di Corrado Dottori
Ed. DeriveApprodi