Nella mia testa spesso risuona [rimbomba: con la o] una canzone. Di questo fatto non ho una spiegazione logica. So solo che capita che mentre sto pensando ai casi miei io senta arrivare una musica che scivola sui pensieri e piano piano aumenta di intensità, mettendoli a tacere. [Per la cronaca in questi giorni è: Matia Bazar a nastro, Dresden Dolls e Amedeo Minghi]. Non è necessariamente una musica collegata a quanto mi capita, anzi di solito non ha nulla a che fare con la vita che sto vivendo in quel momento. Arriva e basta. Quando viaggio le cose però acquistano un senso intelligibile e la musica nella testa diventa colonna sonora. Così anche questa volta ho sentito le voci. Intanto La Voce, cioè Sinatra che però mi cantava un’inopinata L.A. is My Lady invece di New York, New York. Quindi Alicia Keys e un poco di Billy Joel, una sfumatura di Springsteen [ma di notte, ché NYC Serenade richiede cielo nero e skyline illuminato] e infine l’immancabile dichiarazione d’amore impossibile: New York ti amo, ma mi stai distruggendo.

Aprile. Si viaggia con Alitalia, partenza da Milano perché costa meno [il volo AirFrance da Torino a prezzo stracciato lo hanno messo da poco]. Alitalia è partner di Skyteam. Sul cosobianco è un mantra, lo dicono in continuazione. Non ho idea di chi o cosa sia Skyteam e se io debba preoccuparmi. [Nel dubbio, mi preoccupo].
Volo da Milano a Roma e poi da Roma all’aereoporto JFK. Per me è sempre una fatica pesa, per cui mi tengo occupato smanettando sull’offerta audio/video del cosobianco intercontinentale. Lo schermo è piccolo e la qualità è scadente, sia dell’audio che del video. Uso i miei auricolari invece di quelli usa e getta forniti da Alitalia e va un po’ meglio.
Il primo film che scelgo di guardare è The Place, con Mastandrea e altri attori bravi o bravini. Parte da una bella idea e via via diventa una rottura di coglioni insostenibile. L’apice della quale [rottura] non è uno solo ma viene raggiunto ad intervalli più o meno regolari ogni volta che parte il contrappunto dell’entrata in scena di Ferilli Sabrina, il cui personaggio è utile solo a consentire alla storia di raggiungere uno stanco finale. Finito The Place, che sconsiglio a chiunque, ho iniziato a guardare La Forma Dell’Acqua. Ero poco oltre la metà quando siamo atterrati a Nuova York.

[Reprise.
Al ritorno ho finito di guardare La Forma Dell’Acqua. Mi ero appuntato il minuto cui ero arrivato perché se non scrivo le cose le dimentico. Per questo stesso motivo sto appunto scrivendo ora.
Per chi non lo sapesse, questa puttanata un paio di anni fa ha vinto prima il Leone d’Oro a Venezia e dopo l’Oscar per il miglior film ed è, appuntatevelo, una puttanata totale globale. Se avete amato il cinema e se lo amate ancora non potete sostenere nulla di diverso. Non è una favola, non è realistico, non è un sogno, non è originale né nella trama né nello svolgimento né nella costruzione della storia né nei personaggi. È una puttanata nella quale si salva solo lo scenografo, lui sì veramente bravo.
Dopo, ché certi viaggi con le ginocchia in gola sono eterni, ho visto Tre Manifesti a Ebbing. Epilogo a parte è un bel film. Nulla che resterà nella storia del cinema ma un bel film, nel quale la prima parte è migliore della seconda e con Frances Mc Dormand che è un fenomeno di attrice.
Ho finito il viaggio con le prime tre puntate di House of Cards che mi ero scaricato sul telefonino grazie al wi-fi dell’albergo. Ora sono in Italia e mi manca di vedere tutte le altre, che su Netflix Italia non ci sono. Merda].

Per entrare negli USA ci vuole l’ESTA. È il visto elettronico da fare per tempo [lo si può ottenere on-line e costa una quindicina di euro. I siti che ve ne chiedono quaranta o più ci stanno provando], da presentare all’imbarco in Italia e che dovrebbe servire ad avvisare che stai arrivando, che non sei un pericolo, che starai poco tempo. Così atterri, scendi dall’aereo e con ESTA e passaporto in mano ti illudi di fare in fretta. Ti metti in fila e sembra una fila piccola, corta. Pensi che ci starai ancora per poco, che puoi sopportare il gruppo di napoletani [di Posillipo] che ti spingono da dietro e ti urtano con i loro zaini, girandosi di continuo a destra e pure a sinistra senza mai chiedere scusa o mostrare di essersi anche solo accorti dell’impatto [degli impatti]. A fila ferma immobile. Quando finalmente, passo dopo passo, hai percorso il piccolo corridoio nel quale ti trovi e giri l’angolo e sotto di te vedi una scala che porta ad una enorme sala con i corridoi della coda creati artificialmente per mezzo di separatori a nastro, sbarri gli occhi. Un serpentone umano che ti farà stare in piedi oltre due ore prima di tornare alla libertà. Per una procedura di minuti tre nella quale ti fotografano il viso, ti prendono un paio di impronte digitali e ti chiedono se hai con te dei contanti. Sarà la sicurezza, sarà quello che vi pare, ma anche che cazzo.

I controlli sono troppi e te li fanno ovunque. Togli lo zaino, metti lo zaino, via la cintura, posa il cellulare, cosa hai in tasca, entra nello scanner, tira su le mani, stai fermo, ora fai la giravolta. In aeroporto e anche nei musei, all’ingresso delle torri panoramiche, in tutti i luoghi aperti al pubblico. File e controlli. Il peggio, ovviamente, si raggiunge negli aeroporti, dove non ti devono vendere niente e allora devono fare passare il tempo. Non hanno nessuna fretta. Per i controllori sei un potenziale terrorista e ti trattano come tale, togliendo o mettendo i tuoi oggetti personali nella tua borsa come se fosse la loro. Mica sei americano, tu. Loro sì e sono anche parecchio stronzi.

Lo skyline è bello da qualunque parte lo si guardi. Impressionante. Sia che si arrivi a Manhattan da un ponte di collegamento, sia che lo si veda dall’Hudson o da un battello. Di notte è anche meglio.

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Per arrivare a Manhattan ci sono diversi ponti. Il più famoso è quello di Brooklyn che porta, guardunpò, a Brooklyn. Poi c’è il Queensboro che porta a Queen’s, il ponte di Manhattan che porta a Manhattan [da Brooklyn. Ma anche viceversa, immagino lo abbiano chiamato così per par condicio], il ponte di Verrazzano [che non porta a Verrazzano e in realtà non tocca Manhattan ma Brooklyn e Staten Island]. Quello di Brooklyn è vietato ai camion: solo auto, con una sopraelevazione centrale percorribile a piedi o in bici e che è sempre affollatissima.

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Grattacieli, case, uomini. La sensazione di essere un lillipuziano in una città fuori misura. Vale per i grattacieli e vale anche per le case più basse, che in centro non di rado sono dei monoliti di oltre dieci piani. Alla dimensione si aggiungono i materiali usati per la costruzione, materiali spesso riflettenti come vetro e ferro, per cui l’effetto ottico è amplificato in tutte le direzioni.
I newyorkesi camminano spediti, incuranti di quello che li circonda, con il loro cappuccino da passeggio in una mano e la borsa da lavoro nell’altra. Hanno una meta, loro. Tu no: testa in alto e camminare.

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E se per caso non ci sono grattacieli nella strada dove ti trovi, basta svoltare l’angolo ed eccoli, dinosauri postmoderni di vetro, ferro e cemento che escono dalla boscaglia.

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Il traffico è meno peggio di quello che credevo. Molti taxi, molto più numerosi rispetto all’Italia. Sono gialli, verdi, neri. Quasi tutti i taxi portano sul muso il marchio Toyota, in spregio a Ford, l’inventore della catena di montaggio. La nuova frontiera ha nazionalità giapponese ed è ibrida termico/elettrica.
I tassisti guidano alla cazzo, cambiando corsia senza freccia come meglio gli conviene. Le loro automobili avrebbero [tutte] bisogno di una revisione e sembrano contenere le loro case, con oggetti personali, bottiglie vuote, giornali spiegazzati e sacchetti di patatine dispersi nell’abitacolo. Gli ammortizzatori sono scarichi e le buche, con buona pace dei romani, ci sono anche qui.

Orientarsi a Manhattan è facile. Le strade hanno per lo più numeri progressivi e sono perpendicolari tra loro. Quelle orizzontali sono le Streets, quelle verticali si chiamano Avenue.

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Sono strade larghe, anche a tre corsie, quasi sempre a senso unico. I semafori consentono l’attraversamento pedonale con il classico omino stilizzato, però qui è bianco e grosso. Lo stop invece è segnalato da una manona aperta, rossa. Tutti usano il clacson, abusandone. Molte auto circolano con una protezione di gomma, come un tappetino, a coprire i paraurti.
Non ci sono vigili, a parte quando piove o negli orari di punta, e non sono vigili ma poliziotti. Contrariamente ai tassisti, la polizia usa solo auto americane, principalmente Ford e qualche Dodge.

Nelle strade principali di Manhattan e nelle vetrine dei negozi si vedono tabelloni elettronici di ogni dimensione che proiettano veri e propri video. L’uso della carta a scopi pubblicitari a New York è ridotto al minimo. A Times Square, che è il posto più brutto di NY, ci sono, contemporaneamente: persone ammassate in grumi umani, auto che suonano il clacson, rumore variogenere, musica variogenere, ragazzi neri che improvvisano balletti e/o cercano di venderti cd, l’Hard Rock Cafè, persone vestite da Statua della Libertà o da supereroi Marvel o da Pippo Pluto Topolino Minnie, ragazze in mutande con il corpo e le tette dipinte con i colori della bandiera USA e, appunto, enormi schermi luminosi pubblicitari. C’è Rosario Dawson che pubblicizza una sua linea di abbigliamento. C’è Serena Williams che gioca a tennis contro una avversaria immaginaria indossando auricolari ipersupermega tecnologici.

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Pare che nella settimana santa sia festa in Spagna. E pure noi con il 25 aprile abbiamo avuto la possibilità di fare ponte. Fatto sta che la città era piena di turisti spagnoli e italiani. Entrambi insofferenti alle code.

La cosa bella del Museo di Storia Naturale sono i dinosauri. Tanti, grossi, enormi. Il tirannosauro, il triceratopo e i loro fratelli, con il titanosauro che ha la testa in una stanza e il corpo nell’altra. Il Museo è pieno di diorami ed è chiaramente studiato per la didattica, adatto sopratutto ad un pubblico di bambini e liceali. In particolare le esposizioni temporanee, che si pagano a parte, sono pensate per un pubblico sotto i diciotto anni. Io ho visto quella del tirannosauro perché non sapevo di essere sotto i diciotto anni.
Momento clou della visita: sotto la statua dell’Isola di Pasqua, davanti alla quale tutti i ragazzi si fanno fotografare [scemoscemo, gommagomma].
C’è troppa gente, ci sono troppi bambini, c’è troppo poco spazio. In Italia abbiamo norme di sicurezza che impedirebbero l’ingresso a una massa simile di persone.

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In meno di diciotto anni il World Trade Center è rinato.

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Ci hanno costruito il One World Observatory [tempo complessivo impiegato: anni 6 più uno per l’antenna], il museo del 9/11, due grandi fontane incassate nella piazza nei punti dove sorgevano le due torri e l’Oculus di Calatrava [che è una stazione della metro con un centro commerciale. Inaugurata nel 2016, da fuori è un occhio bianco con lunghe ciglia mentre dall’interno è il ventre di Moby Dick. O della balena di Pinocchio?].

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L’Observatory consente una vista a 360 gradi sulla città ed è ad oggi la sesta torre più alta al mondo, la più alta dell’emisfero occidentale.

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Le fontane nella piazza sono un pugno alla bocca dello stomaco. Di colore grigio scuro, riportano sul parapetto di appoggio i nomi dei morti. Incisi. Sono fontane enormi e anomale: quadrate, con l’acqua che non zampilla ma scivola giù dalle pareti laterali, defluendo in un un buco centrale. Difficile descrivere l’effetto che fa, tra colori e suono cupo dell’acqua. È una mancanza in forma di fontana, una privazione che non ferma il fluire del tempo.

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Il museo è inutile, almeno per un occidentale non statunitense. Come andare al cimitero a visitare le tombe. Qui alle foto di chi è morto si aggiungono: la visione delle fondamenta delle torri, le proiezioni di frasi che forniscono piccole e sommarie informazioni sulla vita delle vittime, la raccolta di reliquie [i pattini con i quali un’impiegata veniva al lavoro, una bandiera, un frammento di scale], gli audio dei parenti che nominano i loro cari morti. Per un americano è probabilmente una visita che fortifica il senso di appartenenza agli USA. Massimo rispetto però io non sono americano.

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Se l’Empire State Building è un simbolo solo di New York, la Statua della Libertà è patrimonio di tutti gli USA. Se ne sta su un’isoletta di fronte alla propaggine sud di Manhattan, in cima a un piedistallone, tutta verde. Non è male, sapete? Molto meglio dal vivo che non in foto.

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A Staten Island venivano condotti tutti coloro che arrivavano in America con le navi per essere controllati. Da qui coloro che non erano ritenuti degni di essere accolti negli USA venivano rispediti indietro. Vi ricorda nulla? Gli Stati Uniti sono stati costruiti dagli italiani, dai cinesi, dai russi, dagli irlandesi. Dai migranti. Partivano dalla loro patria, viaggiando per mare, perché in Italia si moriva di fame, in Russia c’erano i Pogrom contro gli ebrei, in Turchia gli armeni venivano impiccati. Per ricordarsi da dove sono venuti, gli americani a Staten Island hanno costruito un museo. Alle pareti ci sono foto che raccontano l’esodo da tutte le parti del mondo verso gli Stati Uniti, a testimoniare da cosa questi poveracci scappavano, cercando una vita migliore o semplicemente la sopravvivenza.

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Ci sono anche i disegni satirici che raccontavano i timori di chi credeva che l’America sarebbe stata invasa dalla malavita italiana o russa o cinese, che avrebbe distrutto il Paese. Non è andata così e se oggi New York è abitata da milioni di persone è perché è stata costruita con le mani di chi è arrivato da fuori, persone che sono rimaste lì, vi hanno messo su famiglia, hanno imparato l’inglese, hanno continuato ad abitare la città. Questo museo, dal quale non mi aspettavo nulla [e invece], è il luogo giusto dove venire a ripassare la storia quando si è così stronzi da pensare che sia giusto chiudere i porti, che sia giusto finanziare la Libia. Quando si è così stupidi da ridurre il proprio pensiero a primagliitaliani.

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La maggiorparte del viaggio si è svolta a piedi. Oltre venti km di scarpinate pedantibus di media giornaliera. È faticoso ma si vede molto di più. Ho perso oltre due chili e mezzo in una settimana.

New Yoerk è il regno del “lurido”. Bancarelle che vendono cibo ovunque. Principalmente hot dog e bretzel, e questo lo sapevo, ma alcune preparano anche piatti unici con pollo o manzo, riso e verdure. Le fette di petto di pollo vengono buttate su una grande piastra di metallo, dove fumano sfrigolando e vengono tritate grossolanamente con una simil-cazzuola. All’angolo con la 6th Avenue ci sono delle panchine dove gli avventori di questi ristoranti ambulanti si siedono verso sera a consumare quella che temo sia la loro cena, una volta finito di lavorare.
Molte strade di New York, con particolare attenzione a quelle dove si cucina cibo orientale [la 42nd street è la Korean Way], conservano un invincibile odore di intingolo.

Chipotle è una catena di cibo messicano, burritos e tacos e altre amenità. Ho preso un burrito, che puoi farti riempire come vuoi. Solo che devi essere velocissimo, perché c’è la coda in questa catena di montaggio di chipotle [suona meglio di burrito]. Il vero fast food. Nonostante l’ampia scelta di ingredienti, qualunque cosa sceglierai di mettere nel tuo chipotle il gusto sarà lo stesso e ti perseguiterà per il resto della giornata. Hai pensato di metterci del riso per contrastare l’effetto peristaltico del chipotle? Sei un illuso.

Ci sono due o tre catene che scimmiottano la colazione europea o, meglio, francese. Una è Paris Baguette [non ridete] dove, in verità, lo yogurt con banane, miele e pecan non è male e dove pure i cornetti sono migliori di quelli del 90% dei bar di Torino. Anche 95%.

Un altro fast food è Pick a Bagel, specializzato, va senza dire, in bagel. I bagel sono quelle ciambelle salate dal gusto vario [cipolla, integrale, cereali, etc.] tipicamente crude all’interno e farcibili variamente [pomodori, burro di arachidi, avocado, pancetta, creme di formaggio multicolorate]. Qui ho bevuto, non senza fatica, il caffè espresso peggiore di tutta la mia vita.

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La specializzazione delle zone, e ancora di più delle strade, è una cosa che colpisce. C’è la strada del cibo coreano, come detto, il distretto dei diamanti [sulla 47th Street, la strada delle gioiellerie], il quartiere della moda [Soho], quello dei teatri [Broadway] e così via. Moltissimi i negozi, New York è una città dove tutto può essere acquistato con facilità. Eppure è una città piena di barboni, gli homeless. Più numerosi ad Harlem e nei quartieri meno ricchi. In centro a Manhattan sono sporadici ma tutt’altro che rari. Se ne stanno in un angolo, su una panchina, seduti per terra.

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La metropolitana qui si chiama così Subway: sotto la strada. A Londra la chiamano Underground: sotto terra. Le stazioni sono numerose e la metro è sicuramente il mezzo migliore per muoversi, il più veloce e il meno costoso. La metropolitana non ha nulla di moderno. Lo aveva quando fu costruita, indubbiamente. Oggi è un vecchio modello di treno sferragliante che corre su vecchi binari attraversando vecchie gallerie, tra banchine più o meno piccole e travi di ferro. Eppure è tremendamente funzionale. Lo stesso dicasi per i bus del trasporto di superficie, che dimostrano la mia età.

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Le biglietterie sono di due tipi: automatiche o umane. Quelle automatiche consentono di acquistare un biglietto alla volta e non sempre funzionano con la carta di credito [only cash]. Quelle umane vivono in gabbiotti ermeticamente chiusi e non accettano carta di credito [only cash].

La funzionalità è la parola d’ordine, tangibile ovunque. Ma non sempre la funzionalità si accompagna alla perfezione tecnologica ed estetica. Da un lato ci sono gli enormi schermi pubblicitari di Times Square, dall’altro ci sono gli scarichi dei cessi. Questi hanno una forma a torretta, con una leva laterale da azionare manualmente e sono esterni, mai murati: visibili, riparabili senza spaccare il muro. Anche gli interruttori della luce non sono pulsanti di ultima generazione bensì anacronistiche levette. Ovunque, dai bar ai ristoranti agli aereoporti. Questo fatto mi ha ricordato che nei palazzoni newyorkesi dei film c’è sempre un inquilino che funge da riparatore factotum, pronto a ogni evenienza.

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Altra cosa presente in gran copia a New York sono i musei d’arte. Come il MOMA, il museo di arte moderna che sta in centro a Manhattan. Nelle collezioni si trovano almeno due quadri che hanno fatto la storia dell’arte moderna: Les Demoiselles d’Avignon di Pablo Picasso e La Danse di Henri Matisse.

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C’è anche un enorme Monet, dipinto su tre grandi tele e così disposto, un trittico che ha un effetto quasi tridimensionale: sono le sue ninfee e sono un capolavoro anche per me che non sono da tempo più appassionato di impressionismo. [Qualcosa del genere si può vedere anche a Parigi, dono del pittore alla città e alla Francia]. C’è un Hopper, ci sono un paio di grandi Rothko, un grande Pollock, una bandiera di Jasper Johns, Speranza II di Klimt. E Leger, e altri Picasso, e Mirò, la Notte Stellata di Van Gogh. C’è anche Il Sogno di Rousseau, che nel mio quore sarà sempre la copertina di Teresa Batista Stanca di Guerra, uno dei romanzi della mia vita. Al terzo piano, vicino alle scale, potete vedere Il Mondo di Christine, di Andrew Wyeth.

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Top Of The Rock è il tetto del Rockefeller Center dal quale si gode una gran vista su tutta Manhattan. Quando ci sono salito io non c’era il sole e il cielo era plumbeo, ma l’effetto è stato lo stesso notevole. Anche per entrare qui controlli e controcontrolli, con sfilamento di cinture e scannerizzazione di zebedei.

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Little Italy e Chinatown sono due quartieri confinanti divisi da una strada. Attraversi e le insegne dei negozi dall’italiano diventano ideogrammi. Sono due quartieri che mi sono sembrati dei perdibili ciapa-ciapa, con Chinatown un po’ meglio perché qualche negozio, principalmente pescherie e negozi di articoli prettamente cinesi, offriva merce più interessante e più caratteristica rispetto a quelli a Little Italy. Ad esempio vendevano delle piccole tette di gomma con tanto di capezzolo da usare come antistress. Però non sono sicurissimo che fossero proprio caratteristiche cinesi.
A Little Italy ci sono molti ristoranti. Sono passato davanti a un dehors dove una famiglia stava pranzando. Il padre, che Iddìo lo strafulmini, stava inserendo la sua forchetta nel grumo di spaghetti che aveva nel piatto [condimento: bolognese] mentre con la mano destra impugnava il coltello. E non vi dico altro.

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Ci sono quartieri che si chiamano con crasi di parole. Nolita è North of Little Italy, Soho è South of Houston [Houston è una strada], Tribeca è Triangle Below Canal Street. La cosa positiva di avere le strade numerate è che di fatto non ti serve una cartina per girare e non perderti. Sai che le street sono orizzontali e salgono e che le avenue sono verticali e vanno da destra a sinistra. Ovviamente con me è tutto inutile e infatti mi sono perso dalle parti di Canal Street. Pur avendo una cartina.

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Ci sono tanti murales, ovunque, basta camminare e alzare lo sguardo. Ce ne sono di belli, anche sulle saracinesche, al WTC oppure a Brooklyn ma anche sulla Bowery o nell’East Village. Uno di quelli che mi sono piaciuti di più era dalle parti dell’East Side, dedicato a Michael Jackson.

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L’East Village è attraversato dalla 1st Avenue. Le case sono giustamente basse, molte in mattoni rossi, e nelle vie laterali hanno le scale in pietra con le ringhiere in ferro che conducono al portone di ingresso. Come nei film di Woody Allen o in Harry ti presento Sally. Case simili si vedono al Greenwich Village, ad Harlem e in altri quartieri lontani dal centro, dove tutto è invece più grande, compatto, alto.

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Di Brooklyn posso dire poco, ci sono solo passato. La parte che si trova sotto l’omonimo ponte è molto bella, piena di vecchi magazzini e di vecchie fabbriche riconvertiti a centri commerciali e negozi. Si passeggia bene anche grazie a strade poco trafficate. C’è un flea market, il Brooklyn Flea, in un tunnel proprio vicino al parco.

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I famosi playground esistono davvero. Ce ne sono molti, non in centro. Vi si gioca a basket, e i giocatori sono molto scarsi, oppure a freesbee oppure a una sorta di pelota cinese. A Central Park ci sono anche campi da softball con piccole tribune dove giocare in mezzo al verde e sotto lo skyline.

Vale la pena anche farsi un giro al negozio della NBA per ammirare qualche cimelio sportivo, considerare che le magliette costano uno stonfo e realizzare che le felpe con la cerniera, le più comode di tutte, non le fabbrica più nessuno.

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I poliziotti di New York sono quasi tutti grassi. Botolotti che non riuscirebbero a rincorrere un barile di lardo. Sarà la vita sedentaria, sempre in auto o fermi. Ma per dirigere il traffico vanno bene.

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Tutto il contrario dei pompieri, i fieri membri del FDNY. Loro sì, sono efficientissimi. Arrivano a sirene spiegate [le sirene di polizia e pompieri si sentono anche se in auto hai la radio a palla], saltano giù dai mezzi e intervengono. Abbiamo assistito a un intervento in una strada. Era esploso un tombino, abbiamo saputo dopo. Fosse successo a Torino ci sarebbero ancora le transenne attorno al foro.

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Le tipiche ragazze bionde wasp sono carine. Ma le nere. Mioddìo. Le ragazze nere sono un qualcheccousa.

A New York puoi vestirti come ti pare senza che nessuno si stupisca o ti prenda in giro. Puoi metterti gli short e le scarpe aperte con le zeppe anche se sei un maschio di ottanta chili. Puoi andare in giro con una collana d’oro più grossa della catena che uso io per la bici. Puoi avere il collo pieno di tatuaggi e piercing su naso, narici, sopracciglia, guance. Puoi metterti un paio di pantaloni con winnie pooh anche se hai ottantanni. Puoi indossare una maglietta aderente color carne sopra il reggiseno bianco con i pantaloni azzurri e i mocassini anche se sei un ragazzo di ventanni. Nessuno ti dirà nulla, nessuno ti sfotterà. Tutto è normale.

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Mancano, in centro, i bidoni della spazzatura per le attività commerciali. I sacchi di monnezza di grosso calibro vengono lasciati davanti ai negozi, a bordo marciapiede. Di sera o notte passeranno dei grandi camion a raccoglierli. Ora immaginate Mc Donald’s di Piazza San Carlo con una dozzina di sacchi neri davanti, tutti ordinati e ben chiusi. Fatto?

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Ho scattato una buona metà delle foto senza avere prima pulito l’obiettivo. Mi faccio i complimenti da solo.

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Non so se ho detto prima quanto siano meravigliose le ragazze nere.
Ma le orientali. Uh, le orientali.

Carne e uova sono gli ingredienti principali di qualunque piatto. Uova al bacon, strapazzate, in crema, sode, come vi pare.

Quando visito un posto che non conosco la mia prima curiosità va alla cucina. E come si mangia a New York? Si può mangiare male ma si mangia anche molto bene se si vuole farlo. Tutte le cucine del mondo sono rappresentate. E non esagero: tutte. Mi sono affidato a qualche consiglio di esperti [in particolare Stefano, che ringrazio ancora].

La cucina americana tradizionale non mi sembra così interessante, bistecca a parte la ho evitata.
Al Noodle bar di Momofuku ottimo il panino ai gamberi piastrati, con pane bao e una salsa piccante il giusto, persistente e non invadente.
Shake Shak è una catena di hamburger, un fast food. Però la carne è buona e il panino, classico da hamburger, è pure un po’ unto. Insomma, ci fosse anche qui mi farei crescere volentieri qualche brufolo sul naso di tant’in’tant.
Il cibo da strada è ben rappresentato da una sorta di manifestazione itinerante che propone un pò di tutto. Si chiama Smorgarsburg e il venerdì è al WTC mentre il sabato e la domenica si svolge in alcuni parchi. Ci sono cose buone e cose così così, ma vale la pena farci un giro.
Poi a Chinatown ho mangiato bene pagando poco [per piatti enormi] da Nom Wah Tea Parlor, ristorante cinese come qui non ci sono più. Non si prenota: si arriva, si dà il nome e si aspetta. C’è anche una versione più figa e più cara a Nolita, che si chiama sempre Nom Wah.
All’Oyster Bar della Central Station mi sono fatto un quasi obbligatorio lobster e ho mangiato ostriche di due tipi: ne hanno una buona selezione a prezzi convenienti.
Altri ristoranti/bistrot/bar consigliati da amici o erano chiusi per incendio, o erano pieni o non li abbiamo trovati: cito Ichiran e Mandoo Bar e Made Nice e Jacob’s.

Molti ristoranti, bar e gastronomie si vantano di fornire prodotti organic. L’organic va molto, anche in alcune catene di fast food. Tuttavia tutte le stoviglie sono monouso, dalle forchette ai piatti.

Come si raccolga la plastica non mi è chiarissimo. Ci sono cestini per l’alluminio e per l’indifferenziato. Ma la plastica? Nei fast food ho visto che la buttano come indifferenziata. Ma ho anche visto qualcuno andare in giro trasportando grossi sacchi pieni di bottiglie di plastica vuote. E in effetti al supermercato ho comprato una bottiglia d’acqua e mi hanno caricato 5 cent di deposito cauzionale. Li restituiranno a chi porta indietro le bottiglie? Chi sa parli.

Detto delle uova, c’è la carne. Ovviamente tutti consigliano di andare da Peter Luger. Il quale tuttavia consente di prenotare solo online e di pagare solo in contanti e allora ciao.
Sono passato per caso davanti a Gallagher. Una vetrina, come di un piccolo negozio, con tutte le costate esposte, a decine. Luce accesa, in pratica è l’interno di un grande frigo. Una cosa che non mi è piaciuta, forse ipocritamente, ma chissene. Mentre guardiamo le bistecche esce un tizio e dice a Gio’: fatti un selfie con tuo papà davanti alla vetrina, la gente viene qui a mangiare la nostra carne da tutto il mondo. Non ne dubito, ma niente selfie e alla fine siamo andati da Keens [guarda caso, nome che evoca l’Irlanda], che è un posto per ricchi bianchi wasp arredato come un locale dell’’800, con le pipe di legno appese al soffitto e con camerieri neri, asiatici, etc. Come si conviene.
So che la bistecca quando sta sul chilo viene di norma condivisa. Se non si è egoisti come me.

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Sulla discriminazione razziale si potrebbero dire tante cose. E le direi, se fossi un sociologo. Non lo sono e pertanto posso solo limitarmi alle impressioni. Intanto c’è una discriminazione basata sul censo, nel senso che certi prezzi [e certi luoghi] te li devi poter permettere. Certo, non sono ricchi solo i bianchi, ma non credo sia una caso che certi locali siano frequentati solo [o in prevalenza] da bianchi. D’altra parte il presidente pro tempore negli USA è un conservatore, è razzista ed è misogino e alle ultime elezioni raccattò parecchi voti.

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Potrei mangiare ogni giorno, alternativamente l’uno o l’altra, ma devo ancora capire la differenza sostanziale tra Ramen e Soba.

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Tutti i ristoranti hanno in vetrina un foglietto con una lettera maiuscola ben visibile. Rappresenta il voto che l’ufficio di igiene dà alla loro cucina. Ecco. Io entro solo dove c’è la A.

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New York, se ti piace l’arte moderna e contemporanea, è un luogo di perdizione. Al Metropolitan Museum, per gli amici MET, puoi perdizionarti tanto da rincretinire e non hai nemmeno bisogno dell’arte moderna, ché qui c’è la qualunque. Il guaio del MET, oltre all’affollamento eccessivo, è la distribuzione delle opere. Invece la vastità di argomenti [antico Egitto, Cina, Paesi Arabi, scultura, pittura, arte moderna, impressionismo, armature antiche, etc.] è affrontabile grazie alla lungimiranza di un biglietto di ingresso che può essere sfruttato per tre giorni consecutivi. Il difetto, invece, sta proprio nella disposizione delle stanze, almeno per quanto riguarda la pittura dall’’800 in avanti [che è quella che piace a me]. Un blocco rettangolare di sale con accessi su ogni lato, senza un ordine né logico né cronologico. Spostandoti da una sala all’altra puoi passare da Corot a Van Gogh, da Klimt a Cezanne, da Gauguin ancora a Corot [una intera sala dedicata a Corot. Mah]. E poi ancora. Il caos. Quando poi scendi al piano di sotto e chiedi dove puoi trovare Forme Uniche Nella Continuità dello Spazio, la risposta della gentile signorina è: “Sorry, it’s closed”. [Mannaggia a o’Vesuvio].

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Nei musei di New York si può quasi sempre fotografare, senza flash, e tutti lo fanno. Lo faccio anche io, con la consapevolezza che sarà impossibile rendere l’esperienza di guardare un’opera dal vivo. Non è solo questione di colori o di qualità dell’immagine. Provate.

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L’importante è non limitarsi a fotografare. La fotografia può servire per rievocare in un futuro più o meno prossimo l’esperienza vissuta. Ma se non poniamo la necessaria attenzione [concentrazione] quando siamo davanti a un quadro otterremo un esperienza vuota e il nostro fotografare resterà un gesto meccanico che avrà come esito un file che non riguarderemo mai.

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Naturalmente scattare foto in un museo può anche servire, a me, per fare il minchione.

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Oppure per ingrandire una mano.

La tazza del Guggenheim fu un colpo di genio del vecchio Frank Lloyd Wright. Purtroppo all’interno, sulle rampe che salgono o scendono a spirale, ci ho trovato una mostra temporanea che esponeva quadri di una pittrice della quale non ricordo il nome e che mi hanno fatto cagare tutti. Per fortuna erano invece visitabili la collezione Thannauser [con un notevole Kandinsky, un notevole Picasso, un notevole Gauguin: la trovate a Milano fino al 01 marzo 2020] e una inattesa mostra su Mapplethorpe [Implicit Tension] che mi hanno ampiamente ripagato del tempo trascorso sulle rampe.
A proposito di sicurezza: negli Usa ti scannerizzano anche i peli del naso, ma i parapetti delle rampe al Guggenheim mi arrivano a mezza coscia.
Frase del giorno: Uh, sembra il Lingotto.

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Da quando ho un frigo amico delle calamite compero magneti ovunque vada e ce li attacco con grande soddisfazione. Piccoli piaceri maniacali.
[Il Mondo di Christine di cui dicvevo sopra è il magnete in alto a destra].

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Mapplethorpe è stato il più grande fotografo di fiori mai vissuto. Diceva: “My approach to photographing a flower is not much different than photographing a cock. Basically, it’s the same thing… It’s the same vision”.
Esatto, Bob. Esatto.

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Il tempo a New York è variabile. Piove dopo una giornata di sole, c’è il sole dopo una giornata di pioggia. Giri l’angolo e vieni investito da una raffica di vento, ne giri un altro e torna la calma. Le previsioni meteo non sono attendibili, chiunque le faccia. Va però considerato che le previsioni per Central park sono diverse da quelle per Battery Park [a sud: qui partono i traghetti per la Statua della Lbertà].

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Ad Harlem c’è l’Apollo Theater, nel quale puoi entrare solo se vuoi comprare una maglietta con la scritta Apollo o per assistere a un concerto. Ascoltare un concerto a New York mi sarebbe piaciuto, al Blue Note e al Lincoln Center c’era jazz interessante, tra cui Branford Marsalis. Anche vedere uno spettacolo a Broadway non deve essere male, avendo una conoscenza della lingua inglese migliore della mia. Vabbeh.

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Tornando a Harlem, ci sono zone belle, con case basse, e zone brutte, con case basse. Siamo arrivati fino a Malcolm X Boulevard, che è un enorme stradone che costituisce una specie di frontiera. Eravamo gli unici bianchi. Su Malcolm X Blvd è facile incrociare persone sotto l’effetto del crack, giovani o meno giovani.
La povertà è palpabile anche quando ti imbatti in quei cortili chiusi con una grata metallica, con erba alta, spazzatura e auto parcheggiate. Manhattan sta dall’altro lato di Central Park ed è un’altra città.

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Ad Harlem c’è anche la St. John’s Church. Che è brutta come tutte le chiese della città. Chiese senza uno stile, una accozzaglia di generi tra il gotico e il salcazzico. Questa però ha un oratorio sotterraneo, con campi da basket e da altri sport, un centro congressi, biblioteca e altro. È la chiesa come dovrebbe essere, un centro per la comunità.

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“La mancia la lascio se proprio se la meritano. Se proprio si impegnano al massimo lascio un piccolo extra. Ma lasciarla solo perché si deve è una stronzata”. Così parlò Mr. Pink. In realtà le mance, i tip, sono volontariamente obbligatorie, qui come in altri Paesi di lingua o tradizione anglosassone. E se ne Le Iene si parlava di una mancia del 12% per le cameriere dei diner, a New York il minimo sindacale sta tra il 15 e il 18%. Molti locali indicano già nel conto la mancia suggerita. Quale sia la logica in base alla quale in alcuni locali si dia la mancia e in altri no [ad es. i fast food] non so proprio dire.

Central Park è un parco molto grande. Con laghetti, ampie piste ciclabili e playground per lo skateboard e il softball. È un parco. Molto grande. Un parcone.

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Hop on – Hop off è il sistema dei bus turistici che fanno i loro percorsi in città. Ha due funzioni. La prima è quella di farti familiarizzare con le diverse zone, e un giro appena arrivati in città è utilissimo in questo senso. La seconda è quella, banale, di portarti in giro. Il servizio di descrizione dei luoghi fruito con le cuffiette è molto basico, però puoi scegliere la lingua. Credevo che fossero più lenti negli spostamenti, invece no.

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Per entrare nei negozi, negli alberghi e in generale nei luoghi aperti al pubblico ci sono le porte scorrevoli, ma sopratutto le porte girevoli. Di nuovo, come nei film. Le porte tradizionali, tipiche dei locali più piccoli, funzionano tutte allo stesso modo: tirare per entrare [pull], spingere per uscire [push]. Non ho mai fatto una singola volta l’azione corretta.

Se le ear pods della Apple da noi vanno per la maggiore, qui sembra siano una dotazione necessaria e indispensabile alla deambulazione di ogni essere umano tra i venti e i quaranta anni di età. Non so chi le indossa cosa senta di quello che succede nel mondo reale. Non so se sia interessato al mondo reale.

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La zona di Chelsea che inizia sul fiume Hudson è piena di vecchi magazzini riconvertiti ad attività commerciali. Le strade sono lastricate con grosse pietre, come nel film di Sergio Leone, i magazzini sono diventati negozi o grandi centri commerciali. Chelsea Market è probabilmente il più famoso, quello che chiunque ti consiglia di visitare. In effetti c’è molta offerta, anche di qualità. Ci ho mangiato un paio di ottimi hot dog, uno classico e l’altro con salsiccia di maiale, da Dickson’s.

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In molte città i mercati metropolitani sono diventati una moda. A Madrid ce ne sono diversi, a Lisbona ce ne è uno molto bello. A Torino, fallito il progetto del mercato di Porta Susa, abbiamo da poco il Mercato Centrale di Porta Palazzo. Bella idea, che recupera uno sfortunato edificio made in Fuksas [e quando mai] che era rimasto abbandonato, ma i risultati sono per quanto mi riguarda molto scarsi.

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Grand Central Station è la stazione dove coppie di passanti ballano il valzer nel Fisher King di Terry Gilliam. Con l’orologio nel mezzo.
[Let’s dance].

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Soho è il quartiere a sud di Houston Street.

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Case bellissime, prezzi alti anche in affitto. Si passa di qui sopratutto se si è interessati a moda e design. Ci sono molti negozi e si incontrano fotografi che si aggirano per le strade fotografando le loro modelle.

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Sarebbe utile andare a New York con la valigia vuota per rifarsi il guardaroba. Specialmente quando il dollaro è debole. Ci sono negozi di nicchia ma anche tanti monomarca con prezzi molto convenienti. In alcuni negozi, come Levi’s o Champions, puoi farti personalizzare un giubbotto di jeans o una felpa viola facendovi aggiungere una scritta o un ricamo. Venti minuti, un piccolo extra ed è tutto pronto.

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Nel progetto di riqualificazione delle zone industriali della città, una parte importante la gioca la High Line, una passeggiata pedonale sopraelevata che occupa lo spazio di una vecchia ferrovia. Intorno, le fabbriche sono diventate resort o uffici. Si sta ancora costruendo parecchio, come si intuisce dal braccio meccanico verde che appare nella foto qui sotto [scattata dalla High Line]. Vale la pena farci una passeggiata rilassante.

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Ovunque ci sono tulipani nelle aiuole. New York prima di essere venduta agli inglesi dagli olandesi e diventare così New York era New Amsterdam.

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Curb your dog. Sta scritto sulle targhette apposte sui recinti che circondano gli alberi sui viali. Non sono recintati con una grata flessibile, ma con cancellate in miniatura di ferro smaltato di nero. Immaginate un cane non curbato che ci sbatta il grugno contro.

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Washington Square è la sede di una grande parco dove le persone si incontrano, prendono il sole, suonano. C’è una grande fontana al centro ed un grande arco, piuttosto famoso. In tutta la città ci sono molti parchi e giardini tenuti molto bene che costituiscono punti di ritrovo e di incontro.

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Altra piazza che gode di giusta fama è Union Square, sede anche di un mercato di prodotti naturali, organic o roba similare. Farine, radici, torte salate, focacce alla cipolla untissime, biscotti. E poi ci sono dei ragazzini in bici che sfrecciando ti rubano il cappello e scappano ridendo come il vento [il vento è un gran mattacchione, si sa]. Ci sono anche gli scacchisti, uomini di colore che ti sfidano a partite a scacchi, ovviamente a pagamento. Uomini duri, uomi rudi, uomini veri. Dice una guida: statevi accorti agli scacchisti di Union Square.

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New York è una NO city. Sospetto che sia una caratteristica generalizzata degli USA. Di sicuro si resta colpiti dal numero dei divieti. Qui prima di tutto devi sapere cosa non puoi fare. La cosa strana è che, a parte il traffico che come detto è abbastanza indisciplinato, tutti si attengono alle regole. Se non si può non si può, inutile discutere e infatti nessuno lo fa: c’è una regola e tanto basta. Così intere zone della città sono marchiate con divieti di fumare affissi sui palazzi. Così i semafori non si limitano a chiederti di fermarti con un banale colore rosso, ma utilizzano una grossa mano aperta stilizzata. Così i nuovayorkesi non ti rubano il posto nella fila che stai facendo [gli spagnoli sì. I napoletani si limitano a spingerti]. D’altra parte senza regole sarebbe impossibile permettere a otto milioni e mezzo di persone di occupare contemporaneamente la stessa città.

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L’ora di punta arriva di colpo, quando chiudono gli uffici. Tutti corrono. I lavoratori si riversano in strada e nessuno cammina, sono tutti di fretta. Invadono gli accessi alla metropolitana, corrono dentro le stazioni per tornare a casa. New York è una città che corre e non c’è corsa più veloce di quella di chi ha finito di lavorare.

Una delle contraddizioni più strane: un sedicenne è ritenuto idoneo a guidare un’auto, ovvero un blocco di metallo su ruote pesante anche qualche quintale che colpendo in velocità un altro essere umano potrebbe facilmente portarlo alla morte, mentre non può assaggiare nemmeno un sorso di birra finché non compirà 21 anni. Di più: per sedersi al bancone di un bar dove si servono alcolici, anche per bere una semplice diet coke, è necessario avere almeno 21 anni. Per sedersi. Il che pone dei problemi quando ad esempio vuoi andare a farti un cocktail su un roof top dotato di bar e hai un figlio sotto i ventuno.

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Il rumore delle chiacchiere nei dehors. Camminando per le strade, intorno alle 18, può capitare di sentire un brusìo. Mano a mano che avanzi l’intensità del rumore cresce. Finché non arrivi alla fonte: un bar aperto sulla strada. Tutti i tavoli sono occupati, tutti parlano ad alta voce. Tutti ridono, tutti bevono.

Sì, perché gli americani non parlano normalmente: urlano.

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Altro luogo di socializzazione post ufficio sono i pub. Io sono stato al Connolly’s. Avevano molte birre alla spina, una quindicina, ognuna con il suo braccetto personalizzato per spillare. Nel bagno, le cui porte avevano per maniglie quegli stessi braccetti, ho potuto ascoltare una classica versione di Take 5 mentre espletavo una certa pratica.
A New York ho bevuto solo birra, ne fanno di ottime, evitando del tutto il vino. Un po’ perché non conosco che pochi vini statunitensi, un po’ perché quei pochi che sapevo decenti costavano dai cento dollari in su a bottiglia, un po’ perché smetto quando voglio.
Connolly’s è pub di stile irlandese [a volte ritornano], frequentato da una clientela wasp, con il legno per terra e alle pareti e l’hockey incessantemente trasmesso su grandi schermi.

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Questo qui sotto è il Flatiron, il ferro da stiro. Per me è l’edificio più bello di Manhattan insieme al grattacielo Chrysler. Io lo chiamo Flàtiron, all’italiana. In un ufficio all’ultimo piano c’è l’ufficio di James Jonah Jameson.

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Il Chrysler Building, terminato nell’annus horribilis 1929, per un breve periodo fu l’edificio più alto al mondo [superato poi dall’Empire State Buiding]. In Italia, nel Medioevo, l’altezza delle torri oltre ad avere una funzione di difesa serviva anche a dimostrare la potenza e la ricchezza delle famiglie che le abitavano. Le gare a chi ce l’aveva più alta alla lunga portarono a una serie di spiacevoli incidenti, con tanto di crolli e morti. La cosa, unita al fatto che abitare in verticale era piuttosto scomodo, fece sì che molti nobili decisero di trasferirsi in palazzi decisamente più bassi, compatti e abitabili. Non così a NY agli inizi del XX secolo. Il Chrysler fu eretto in contemporanea al grattacielo della Bank of America e tra gli architetti fu ingaggiata una vera e propria gara per il grattacielo più alto al mondo. Sembrava che avesse vinto la Bank of America, ma l’architetto di Mr. Chrysler, tale William Van Alen, aveva un asso nella manica: la guglia, costruita in gran segreto e issata e montata solo a grattacielo ultimato, in poche ore. Un’operazione difficilissima a quelle altezze, un capolavoro di ingegneria.

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Il presidente pro tempore è ovunque. Sulle magliette, sui cappellini, sulle spille, in forma di pupazzo nei negozi di souvenir. Tutto si gioca sulla ambivalenza tra l’odio, che fa vendere oggetti vari che riportano insulti anche pesanti contro il presidente, e la fiducia conservatrice che insegue il miraggio del Make America Great Again, slogan attorno al quale girò tutta la sua campagna elettorale. Il massimo si raggiunge con la cioccolata al latte con sopra la faccia di Trump. Immagino serva da rimedio contro la stitichezza.

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Non sono sicuro che la lingua ufficiale di New York sia l’inglese, perché molti abitanti non solo non lo parlano, ma capiscono solo lo spagnolo.

In molte strade ci sono ancora le due pesanti ante di ferro sul marciapiede, chiuse da lucchetti, che sono l’accesso alle cantine. Poco funzionale, specie se piove, molto romantico.

Come per i pub irlandesi e per Keens, a New York ci sono luoghi che sembrano fatti esclusivamente per bianchi anglosassoni. Uno è la Neue Galerie, il museo che si trova nel palazzo dove c’è anche il Café Sabarsky. A un personale multietnico [tranne biglietteria, negozio e guardaroba: solo bianchi] si accompagna un pubblico di utenti dall’età media decisamente elevata e indiscutibilmente WASP. Impressioni, ovvio. All’ingresso invece del biglietto ti danno un pin metallico da appuntare alla maglietta. Puoi restituirlo all’uscita e loro lo ricicleranno. [Io me lo sono tenuto]. In questo museo privato si possono ammirare oggetti art deco, mobili e orologi del primo novecento e quadri, principalmente di Klimt, Schiele e Kokoschka. Le pareti delle stanza sono rivestite in legno [le famose boiserie] e i quadri vi sono appesi per lo più ad minchiam: troppo in alto, con una poltrona anch’essa in esposizione [NON TOCCARE!] messa di traverso ad impedire una buona visione frontale, illuminati alla boia d’un giuda e così via. Il pezzo forte è il famosissimo ritratto di Adele Bloch-Bauer di Klimt [se non sapete qual è lo trovate su Google. Dopo potete anche dire: ah, ecco], che ha uno spazio dedicato. C’è anche una stanza con molti disegni esposti degli autori citati. In uno di questi, sempre di Klimt [titolo che non ricordo alla lettera, del tipo: “donna rivolta verso sinistra sdraiata su sedia”], c’è una donna che potrebbe benissimo essere la signora Bloch-Bauer, seduta su una sedia a gambe spalanche e intenta a solitario trastullo.

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La Neue Galerie nacque dall’amicizia e dalla passione per l’arte del primo novecento che legava il mercante d’arte Serge Sabarsky al collezionista Ronald Lauder [sì, è quello della Estée Lauder]. Il pezzo forte è il ritratto di Adele Bloch-Bauer, moglie del ricco industriale dello zucchero Bloch e, pare, amante di Klimt. Il quadro, requisito dai nazisti durante la guerra [i Bloch-Bauer erano ebrei] affrontò un lungo e complicato percorso giudiziario per finire, prima, nella disponibilità dell’erede designata, e poi in quella del museo, grazie alla spropositata quantità di soldi di Mr. Lauder. A New York c’è tanta arte perché ci sono tanti, tanti, tantissimi soldi. Non si riesce a immaginare quanti.

Sarebbe interessante registrare il suono delle diverse sirene di polizia, pompieri e ambulanze. A parole non so descrivere i diversi PO e i diversi UAH. Fidatevi: sono assordanti e ammalianti allo stesso tempo.

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Socializzare è facilissimo. Con chiunque. Ti fermi a guardare un cane portato al guinzaglio e ti ritrovi a chiacchierare con il proprietario con estrema naturalezza. Stai appoggiato a un’impalcatura e una ragazza in difficoltà ti chiede se la aiuti a sfilare il giubbotto ché ha le mani impegnate e le si è incastrato su una spalla. Chiedi un’informazione e nessuno si scoccia di dartela. Ti fermi a scattare una foto e un tizio che sta lavando l’auto si ferma per dirti ciao e chiederti da dove vieni e ti racconta di quando suo padre costruì la casa che ora è sua. Tutto ciò è molto bello.

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Al ritorno passiamo sul Queensboro Bridge, in un taxi privato, direzione lo sfigatissimo terminal del JFK destinato agli aerei che volano verso l’Italia. La prospettiva dall’auto, sotto una lieve pioggia, è sintetizzata da questa capa d’aquila disegnata sulla fiancata di un camion di pompieri che si era affiancato a un semaforo.

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New York è bella ed è troppo grande. Non è del tutto adatta agli esseri umani perché non è una città umana. Direi che è sovraumana o, se si vuole, oltre l’umano. Potrei viverci se avessi ventanni di meno, adesso non credo che ce la farei a farcela. Caotica, enorme, veloce, curiosa, varia, variabile, piena di contraddizioni. A New York tutto sembra a portata di mano. Come su un grande schermo, tutto è in superficie. E la New York più bella è proprio quella del cinema, il cinema con il quale sono cresciuto. È Io ed Annie, dimostrazione pratica data a tutti noi sfigati del fatto che potevamo avere le ragazze che volevamo, belle e intelligenti e sorridenti [ma non le modelle!]. È All That Jazz, capolavoro di vita, morte e arte con la non dimenticabile scena iniziale sulle note di On Broadway. È King Kong che prende a schiaffi gli aerei in cima all’Empire State Building nel 1933. È Bob De Niro che, sdraiato sul lettino di una fumeria d’oppio, sorride alla vita che avrebbe voluto avere. È Al Pacino che tratta con la polizia, asserragliato in banca dopo una rapina andata male. È John Travolta che aspetta il sabato come una liberazione, che resta vivo perché balla, vestito di bianco e di nero. È Marlon Brando che impartisce ai suoi figli ordini di morte. È Harry che scopre che l’amicizia tra uomo e donna non esiste. È un gruppo di ragazzi sbandati, una banda giovanile, che scappano di notte verso casa, a Coney Island, che è più lontana della Cina. È Nick Nolte che viene piantato da Rosanna Arquette mentre sta dipingendo un quadro grande come un palazzo. È Dustin Hoffmann con gli incisivi trapanati senza anestesia. È Gene Hackman con il cappellino sempre in testa. Ma sopratutto New York è Montgomery Brogan che si manda a fanculo da solo.

L’unico modo per conoscere un posto, un luogo, una nazione, una città, una montagna è andarci.
A volte non basta nemmeno quello.

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[Grazie a Marinella, Annalisa, Martina, Enrico, Giorgio, Pietro e Carlo, compagni non solo di viaggio]