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Category Archives: note

Torino è femmina – TorinoBeveBene 2019

29 Tuesday Oct 2019

Posted by nicola barbato in note, prima le persone, vini

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Non riconosco le facce. Un po’ dipende dalla vista, che non è più quella di una volta [ah, quando ero giovane], un po’ dipende dalla memoria [bh, quando ero giovane] e un terzo po’ dipende da una condizione comune a molti e che per fortuna nel mio caso è abbastanza lieve: la prosopagnosia.
È un deficit cognitivo a causa del quale il cervello fatica a riconoscere le persone fuori dal loro ambiente di riferimento abituale. Ne soffriamo un po’ tutti, come quando incontriamo al mare il dentista o la cassiera del supermercato sotto casa e impieghiamo un certo tempo a focalizzare: dove l’ho già visto/a?
Un mio amico una volta incontrò per caso sua madre in autogrill, di ritorno dalle ferie, e non la riconobbe. Non sono a questi livelli ma mi capita di non riconoscere subito le persone. Fuori dall’internet sopratutto. Per cui se qualcuno non riconosce me non mi offendo.
Sabato a Torino Beve Bene ad un certo punto ho incrociato con lo sguardo Silvio Moriondo, produttore del Monferrato. Eravamo a diversi metri di distanza e ho visto che mi stava guardando. Ci siamo scambiati un cenno di saluto e sempre a gesti abbiamo concordato di vederci in un imprecisato dopo. Il dopo è diventato l’ora di chiusura e così, mentre ero all’uscita a scambiare due parole con il buon Vittorio, è sopraggiunto Silvio. Lo avevo conosciuto circa un anno fa al Molo di Lilith, in una serata di presentazione dei suoi vini. Mi si è piazzato davanti e mi ha detto, con la sua voce stentorea: “Ciao! Ma non ho mica capito tu chi cazzo sei! Però ti ho già visto!”

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TBB, quinta edizione, in una nuova e spaziosa sede. Dovrei fare il punto e sono in difficoltà. Perché il punto si mette alla fine e qui siamo solo all’inizio. Perché fare il punto sull’assaggio dei vini ha un senso solo se i campioni sono pochi e se si assaggia da seduti, perché sabato e domenica ho incontrato tanti amici, perché sono di parte e TBB è una manifestazione che mi sta a quore fin dall’inizio.
La sede di quest’anno è il parcheggio coperto adiacente al Giardino Roccioso, zona Parco del Valentino, Torino, 300 metri da dove lavoro, un chilometro e mezzo da casa mia. Comodissimo. Quello che serve alle manifestazioni sul vino è lo spazio e qui ce ne è in abbondanza. I vignaioli sono tanti, i banchi idem, eppure ci si muove agevolmente tra una corsia e l’altra, ci si può fermare a mangiare una trippa da passeggio dalle Cucchi o a fare capannello con gli amici senza intralciare il traffico umano. Sopratutto, con lo spazio spariscono le code ai banchi e la disposizione d’animo diventa buona anche per chi quel giorno ha i cazzi suoi.
[Nota per l’anno prossimo: prevedere dei posti a sedere. Niente di clamoroso, giusto un paio di panchine per noi anziani. Bocce e boccino li porto io].
Alle fiere del vino naturale o artigianale vado per le persone. Nonostante il vino, e posso assicurare che ne bevo e ne ho bevuto anche questa volta, il bello più bello sta nelle parole scambiate, nelle cazzate dette, nelle risate, nei sorrisi, negli abbracci. Non ho niente contro gli astemi, ognuno sceglie la sua strada. Tuttavia imho l’astemio si perde qualcosa. E non sto parlando di gusto. Sabato e pure domenica tutto si è svolto in un clima molto tranquillo, amichevole, come si conviene a un fine settimana baciato dal sole.
[Nota per l’anno prossimo numero due: avrei voluto vedere più ristoratori/enotecari. C’erano Laura e Alessandro di Settesì, c’era Mirko di Condividere e Mirko di Eragoffi, c’era Diego di Luogodivino, c’era Andrea di Rossorubino, Barbara e Davide di Beva, Marco di SmokingWineBar, Stefano di Gaudenzio, etc. Ma mancavano in tanti ché la domenica è giorno in cui si lavora].
Ho saltato quasi del tutto i banchetti delle distribuzioni, che pure erano parecchi e non li cito per tema di dimenticare qualcuno, privilegiando le visite ai produttori che non conoscevo o che vedo troppo di rado. Illuminante per me, come sempre, è stato parlare con Giulio Armani, presente con la sua azienda [Denavolo] e con un gruppetto di vignaioli/amici piacentini. Giulio rappresenta il vignaiolo naturale [su questo argomento conto di ritornare in un post futuro. Se mi ricordo] come deve essere, ovvero uno che prima studia enologia, impara le tecniche, e poi decide cosa fare delle conoscenze apprese, quali seguire e quali abbandonare. Non è obbligatorio essere d’accordo con lui come non è obbligatorio esserlo con nessuno. È invece utile confrontarsi e Giulio è una delle rare persone che non teme il confronto. Come se non bastasse, con lui si fanno anche un sacco di risate.

I vini che mi hanno colpito non sono necessariamente i migliori assaggi, intendendo l’aggettivo in un senso tecnico che qui funzionerebbe peggio che altrove. Sono alcuni [non tutti] di quelli che mi hanno fatto scattare una scintilla in testa. Per motivi imperscrutabili mi accorgo ora che sono per la maggior parte rossi.
Parto quindi dai rossi, da Trinchero [che ha portato anche il Vigna del Noce 2012. Vino esemplificativo di quando dicevo prima: è da tre bicchieri, cinque grappoli, otto sottobicchieri, ventordici tappi. Ma qui delle classifiche ce ne freghiamo]. Ho lasciato il quore alla barbera Barslina 2013. Non so se avete presente una ragazza sfrontata che  sale sugli alberi, si arrampica sui tetti, corre nei campi, salta giù dai fienili, vi spernacchia, scappa via e ha, quello va senza dire, i capelli rossi. Il quore, si sa, è uno zingaro.
Altro rosso: il merlot, vitigno che mi è sempre piaciuto. Mentre in Francia dà vita a vini di giusta fama [e spesso di alto prezzo], in Italia vive più che altro di interpretazioni facili quando non facilone, qui leggere e là marmellatesche. Ogni tanto per fortuna ci si imbatte in qualche vinificazione ben riuscita anche da noi. Ne ricordo una bellissima, da un clone particolare e quasi dimenticato di merlot dai grappoli spargoli, di Vignai da Duline. Altre due eccezioni erano a Torino, una piemontese e l’altra friulana [rectius: dei Colli Orientali, amichevolmente detti COF]. Tenuta Grillo ha portato il 2005 del suo Tornasole, mentre Le Due Terre aveva il suo Merlot 2016. Sono vini diversi frutto di interpretazioni e di territori diversi. Il primo più tannico e materico, il secondo più austero. Hanno in comune una solidità diretta, senza scorciatoie di morbidezza, e la capacità di esprimere la profondità del merlot. Avercene.
Da Ca’ del Prete, cantina in Pino d’Asti condotta da Luca Ferrero, ho bevuto una buona malvasia spumantizzata [con saldo di freisa], ma sopratutto una freisa come si deve, aderente alle caratteristiche migliori del vitigno. Si chiama Casot, l’annata è la 2016. La freisa, parente povera del nebbiolo, non se la calcola mai nessuno fuori dai confini dell’antico Regno di Sardegna. Peccato.
Sempre in Piemonte, a Vignale Monferrato, c’è Monfrà, una piccola azienda nata tre anni fa dedita a grignolino e barbera. Paolo e Sara sono ragazzi sorridenti che lavorano bene e, non guasta, i loro vini hanno etichette molto belle [credo siano disegnate da loro: in una vita precedente erano artisti]. Paolo, poi, essendo giovane e nigrocrinito può ancora permettersi di portare quei favoriti che io dovetti, ahimé, dismettere anni fa sostituendoli con una banale barba. A TBB avevano due annate del loro grignolino, il Panikos. La 2018, caratterizzata da maggiori estratto ed equilibrio, e la 2017, decisamente più anarchica. Siccome qui non facciamo né didattica né guide, è inutile che vi dica quale delle due ho preferito.
Altro rosso il Poggio Tura 2013. Questa volta siamo in Romagna, dal maestro Paolo Babini, clone di David Gilmour. Di Vigne dei Boschi, la cantina in questione, bevo sempre con piacere i bianchi, specialmente le due versioni di albana, il Monteré e in alcune annate il Persefone. Il sangiovese invece non mi aveva mai innamorato. Difetti a mia memoria non ne ha mai avuti, eppure lo trovavo troppo carico, troppo caldo, troppo troppo per il mio gusto. La 2013 invece regala un rosso mirabile, agile e speziato, sia lungo che largo, sia teso che seducente. La bevibilità mi sorprende, specie in un vino complesso come questo, aiutata senza dubbio anche da un alcol in controllo. Qualcuno potrebbe perfino azzardare paragoni con altri sangiovese fuori regione. Si sa che i romagnoli sono gente di quore ma non gli devi rompere i coglioni, quindi mi limito a dire bravo a Paolo, ché lo è.
Restando in Romagna c’era anche Rita a illuminare con il suo sorriso mezzo padiglione. La cantina per chi non lo sapesse si chiama Ancarani e il vino lo fa il marito di Rita, Claudio. Li seguo da un paio d’anni, con una curiosità che trova appagamento  sopratutto grazie al loro lavoro con i vitigni autoctoni [il centesimino, il famoso e l’albana]. Cito l’Indigeno, che pure già conoscevo. È il trebbiano di famiglia, come cita la controetichetta, un rifermentato [posso dire ancestrale?] che è un vino della condivisione. I rifermentati il più delle volte mi dicono poco. Alcuni, come questo, hanno invece la grazia della semplicità. Qualcuno ha definito l’indigeno come vino da nonsipuòdire, io lo chiamo vino da felicità.
Il termine ancestrale mi porta in Lombardia, zona dell’Oltrepo Pavese. Qui la famiglia Baruffaldi [Castello di Stefanago] persegue una via alla spumantizzazione del tutto personale. Oltre a un rifermentato tradizionale, a TBB presentavano quattro metodo classico che in etichetta riportavano anche l’aggettivo ancestrale. Giacomo con infinita pazienza mi ha spiegato che non utilizza alcuna liqueur, né in prima né in seconda fermentazione. L’uva, coltivata ad un’altitudine che arriva ai 500 metri slm, viene raccolta quando è ritenuta matura, ricca di zuccheri e non solo di acidità, ritardando sensibilmente la vendemmia rispetto alle altre aziende spumantistiche della zona. La prima fermentazione non prevede che il mosto vada a secco. Raffreddandolo si ottiene l’effetto di inibire temporanemante i lieviti e si procede quindi all’imbottigliamento. Chiusi nella loro prigione di vetro i lieviti ricominciano lentamente il loro lavoro suicida consumando tutto lo zucchero residuo. È chiaro per quanto detto che ogni vino prodotto sarà vino dell’annata, non esistono basi spumante. Alla fine si procede con la sboccatura e la tappatura tradizionale con sughero e gabbia di metallo. Senza aggiungere nulla a parte altro vino ove necessario a colmare le bottiglie. Una procedura del genere [per capirla ho dovuto attivare entrambi i miei neuroni], senza scorciatoie, richiede tanto lavoro e tanta precisione. Ammetto che temevo che i vini avessero una deficit di freschezza a causa delle modalità produttive adottate. L’assaggio mi ha smentito. Spumanti fatti bene, con bella verticalità, in special modo i rosé [detesto i rosé] che ho trovato dotati di maggiore complessità rispetto a quelli in bianco: segnalo un pinot nero con 60 mesi sui lieviti denominato Cruasé, annata 2013.
Restando sul metodo classico, se a Natale volessi abbinare un panettone buono ad un vino altrettanto buono, una mia possibile scelta sarebbe il Pensiero 2009 di Tenuta dei Fiori di Valter Bosticardo, l’ennesimo piemontese di questa piccola rassegna. Da uva moscato fermentata aggiungendo del passito [di moscato, di corsa]. Conservo nitido ricordo del Pensiero 1996, bevuto un anno fa, alla faccia di chi crede che il moscato non possa invecchiare. Quello aveva sviluppato note evolutive che lo rendevano vino meritevole di essere bevuto ma forse più da appassionati. Il 2009 è certo più immediato, eppure consente di scegliere se stapparlo subito o dimenticarlo dieci anni in cantina.

Sì, so cosa state pensando: hai recensito vini che sono quasi tutti piemontesi, quasi tutti di una stessa distribuzione.
Embè? Non lo ho fatto apposta, ma lo avevo detto che sono di parte.

[Due note a margine.
La prima per il cibo e per i formaggi selezionati da Filrouge. Il loro Beaufort d’alpeggio mi voleva talmente bene che ho dovuto portarne a casa oltre sei etti. Giovanni: i ragazzi sono persino più bravi di te.
La seconda per l’organizzazione. TBB è un evento che è nato al femminile e al femminile cresce. Noi maschi siamo felici comprimari per una volta e ce la scialiamo. Giulia, coadiuvata da Ilaria e da Giada e da un gruppo di lavoro affiatato e consolidato, ha fatto l’ennesimo miracolo. Lo ripeto. Torino non è Milano e non è Roma, qui è tutto più difficile. Servono eventi come questo, donne come queste, persone che lavorano insieme. Sempre prima le persone]

Scrivo.

02 Tuesday Jul 2019

Posted by nicola barbato in diario, note, pensieri

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Scrivo perché quando scrivo sono lucido. Quando parlo sono meno lucido rispetto a quando scrivo. Credo sia una questione di età, di anni che passano, di naturale morìa neuronale. Quanto capita al corpo capita anche alla mente. Esprimere un pensiero a voce richiede una velocità di trasmissione cerebro-lingua che oramai funziona solo se devo sparare una cazzata. I ragionamenti risentono di questo rallentamento e le spiegazioni restano spesso confuse. Allora scrivo. Scrivendo ho più tempo per mettere ordine tra i miei pensieri affastellati. Non voglio immaginare cosa sarà di me fra dieci anni.

Scrivo anche in viaggio, anche in vacanza. Mi porto dietro un piccolo notes per segnarmi, alla sera, le cose viste o accadute, le parole dette e quelle ascoltate. Poi rielaboro tutto con l’aiuto della memoria: il ricordo, senza questo piccolo aiuto di inchiostro e carta e senza il sostegno delle fotografie scattate, rischierebbe di perdersi in un paio di giorni. Mi segno le cose insignificanti, che insignificanti non sono, quelle che è più facile che svaporino nella fretta dei giorni futuri. Quando ricopio gli appunti presi, li rimodello, come fossero pongo, per dargli la forma che meglio rappresenta la mia visione del mondo.

Scrivo quando sono nervoso. Scrivo quando sono malinconico. Scrivo quando sono triste. Scrivo quando sono felice. Scrivo quando sono medio. Scrivere è una medicina che non ha effetti collaterali. Scrivo per me stesso ma non posso negare che se qualcuno mi legge, fossero anche due sole persone, sono contento.

Scrivo, che ve lo dico a fare, quando bevo. Un tempo mi segnavo più che altro le impressioni ritratte dal vino, seguendo la formula della degustazione classica occhi-naso-bocca. Oggi lo faccio di rado. Più spesso mi limito a qualche tratto che mi faccia ricordare, fra un mese o un anno, quella certa sensazione provata.

Scrivo quando vado alle degustazioni. Prendere appunti è un buon modo per stare attenti, per rimanere concentrati. Rileggerli e ricomporli serve a capire e, perché no, riflettere.

Scrivo quando ho tempo e di tempo ne ho sempre meno. Scrivo come adesso, in pausa pranzo e non ho fame. Se mi avanzano dieci minuti magari mi metto a scrivere. Righe che di solito restano incompiute. Oppure scrivo perché all’improvviso sono stato colpito da un pensiero e lo devo fissare su carta [su schermo] prima di perderlo.

Scrivo sempre, scrivo ogni giorno. Per lavoro, certo, ché non mi occupo solo di numeri. Ma scrivo anche per comunicare via telefono o email o social. Se mi viene in mente una minchiata non mi posso trattenere, la devo scrivere. E se qualcuno si sente offeso è perché non ha capito che di minchiata trattasi.

Scrivo per discutere, sono un dialettico di formazione dialettica. Scrivere comporta il rischio di esporsi, di dire cose scomode o antipatiche o non condivisibili dalle temute maggioranze. Dire quello che si pensa può essere controproducente per il lavoro o la carriera. Me ne sono sempre infischiato, sopratutto in politica. Mi sono accorto abbastanza in fretta che la politica non è il mio posto: a fingere non sono capace. Sono un uomo libero: non sarò mai ricco e dirò sempre quello che penso.

Scrivo. Per ricordarmi chi sono e per saperlo. Per ridurre il rischio di cedere all’impulsività, per non essere aggressivo. Vedere le parole davanti a me e riconoscerle mi aiuta a chiarire i concetti prima di comunicarli. Mi aiuta a correggerli quando serve. Aggiungere o levare [il più delle volte è levare]. Mi aiuta a litigare il meno possibile. Scrivere mi aiuta a restare umano.

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io ed elizabeth.

07 Monday May 2018

Posted by nicola barbato in diario, fotografie, note, pensieri, persone, spostamenti

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alla mostra di andor kertész, detto andré, in corso a genova, tra le tante c’è anche questa foto del 1921 che lo ritrae insieme ad elizabeth.
elizabeth è la donna della sua vita. a qualche fortunato capita di averne una.
nel 1925 i due si perderanno di vista, causa trasferimento a parigi di lui e intercettamento delle missive di lei da parte della prima moglie di kertész [capita anche questo]. tuttavia la storia ha un lieto fine, per quanto possano averlo le storie degli umani: andor ed elizabeth si ritroveranno nel 1929, vivendo la loro vita insieme fino al 1977, anno della morte di lei.
nella foto solo elizabeth guarda l’obiettivo. mostra, nello sguardo e nel riso, una felicità che non ha bisogno di spiegazioni. andor invece guarda lei, con una tenerezza che sembra essere trasmessa da tutto il suo corpo: dal modo in cui le sta accosto a come le tiene le mani, dalla piega del suo sorriso mentre le parla. dalla forma del naso, persino.
ci sono molte fotografie meravigliose in questa mostra incredibilmente quasi deserta di visitatori. di fronte a molti scatti il quore ha saltato un battito. [sono vivo per miracolo].
chi oggi fotografi un’insegna, un marciapiede, un’ombra, uno sconosciuto per strada, una porta, una forchetta, un albero riflesso in una pozzanghera, una nuvola sperduta nel cielo, una distorsione visiva causata dall’acqua o da un vetro, costui nel momento stesso in cui preme il pulsante di scatto sta dicendo grazie ad andor kertész, detto andré.
anche se non lo sa.

“Qualsiasi cosa facciamo, Kertész l’ha fatta prima”
H.C.B.

livewine2018 – laiche elucubrazioni.

30 Friday Mar 2018

Posted by nicola barbato in note, pensieri, persone, spostamenti, vini

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vado ad assaggiare i vini di pacina.
così mi sono detto, dopo un paio di bolle, sabato.
invece niente, troppa coda al banchetto. ci sono passato davanti un paio di volte. sempre coda. ho scattato questa foto e sono passato oltre.
ci sono riuscito solo domenica, approfittando di un momento di calma piatta. l’ultimo vino di pacina che avevo assaggiato lo incontrai ad un vinnatur di tre anni fa. ricordo che era il “secondo” di pacina, forse 2011. poi la vita, che è strana ma anche no, non mi ha fatto più incontrare le loro bottiglie. in più, come già in passato, anche questa volta qualcuno aveva cercato di dissuadermi dallo bono proposito. ma sapete come siamo fatti, noi maschi della specie: più ci mettono in guardia, più desideriamo forte.
[forteforte].
come sono i vini di pacina? sono buoni? hanno difetti? sono vibranti, freddi, caldi, cattivi, spigolosi, fosforescenti, gialli, rossi, blu cobalto, terra di siena bruciata, confortevoli, comodi, incazzati, amichevoli, stortignaccoli, verticali, orizzontali, obliqui, sinusoidali, cartesiani, junghiani, toscani? come sono?
per saperlo vi tocca assaggiarli. a me sono piaciuti. tutti, quale più, quale meno. ne ho percepito i difetti, ove li avevano, ma mi sono piaciuti tutti. li berrei e li riberrei. e sono pentito di non avere cercato di comprare, lì al banchetto, una bottiglia del loro vin santo. [dovevo tornare a casa in treno].
così mi sono chiesto: è possibile che tu ti sia fatto influenzare dalla simpatia dei produttori? perché i pacina sono simpatici a pelle [anche se non si chiamano pacina].
vaglio l’ipotesi speculativa che la simpatia [o l’antipatia] nei confronti di un produttore possa farmi valutare i suoi vini poco oggettivamente. mi sembra plausibile.
anche l’amicizia è un problema, quanto all’oggettività.
il fatto è che a me, di norma, piacciono vini prodotti da vignaioli che mi sono simpatici. quelli dei vignaioli stronzi altrettanto abitualmente mi fanno cagare.
[di corsa, ci sono eccezioni in entrambe le situazioni].
la cosa ha valenza generale: fino a che punto il sentimento che proviamo nei confronti di una persona può influenzare l’opinione che abbiamo di lei? siete mai stati innamorati di una stronza? ve ne siete accorti prima o dopo la rottura? no, per capirsi.
che l’influenza ci sia è fuori di dubbio. i critici di mestiere forse riescono ad avere un distacco accettabile. ma solo una macchina potrebbe dimenticare la faccia di chi ha messo in bottiglia il vino che ti stai versando.

il dove [degli assaggi dei vini di pacina e di queste riflessioni da ubriaco] è il palazzo del ghiaccio di via piranesi, in milano [la città ostile], sede per il quarto anno consecutivo del salone dei vini artigianali noto come livewine.
per sapere di che si tratta c’è il sito e anche su queste pagine, sbirciando a ritroso, si possono trovare un paio di post su precedenti edizioni.
oggi, invece, mi va di riflettere. su una impressione, senza dati analitici a supporto. [che me ne faccio dei dati analitici?]
da un po’ di tempo mi sembra che molti vini naturali, a forza di superare barriere [o di ritornare a tradizioni discutibili] abbiano fatto il giro della morte. mi sembra che a forza di non volere riconoscere più come difetti quelle caratteristiche che a squola ci hanno insegnato a chiamare tali, ci si stia abituando a considerarle pregi.
sto parlando, in particolare, della cosiddetta volatile.
non demonizzo nessuno e per me non si tratta di un difetto in assoluto. la ritrovo spesso con piacere o senza fastidio in vini che apprezzo. ricordo, con le parole di sangiorgi, che la volatile è pur sempre un precursore di aromi.
fatto sta che mi imbatto sempre più spesso in vini nei quali la famigerata acetica prevarica sul resto delle componenti del vino, rendendolo non godibile o persino non bevibile.
è una percezione mia, beninteso. non faccio riferimento tanto al mio gusto personale, quanto alla digeribilità del vino.
ho constatato che se bevo troppi vini con volatile alta, come può capitare in una fiera, il mio stomaco tende a ribellarsi. può essere una coincidenza, non posso stabilire una correlazione certa tra digeribilità ed eccesso di acetica. eppoi il problema potrebbe essere solo mio.
è un punto pericoloso, mi rendo conto. fraintendibile [da chi non sa leggere]. intanto mi piacerebbe sapere se questa cosa capita anche ad altri, se la mia impressione è condivisa.

il che mi porta, come cadendo di testa da una scala, ad una seconda riflessione: chi beve solo ed esclusivamente vino naturale si perde un pezzo di mondo.
non dico a nessuno cosa fare e cosa non fare, sia chiaro. siamo tutti liberi, finché non lediamo la libertà altrui [o finché non gli rompiamo i coglioni]. rispetto chiunque scelga di seguire un’alimentazione particolare, a maggior ragione se decide di farlo a causa di allergie o intolleranze. non mi sogno di criticare chi persegue uno stile di vita sano e/o etico [in quest’ultimo caso, è ovvio, si berrà acqua di rubinetto, si compereranno solo uova di galline allevate in libertà, si ridurrà il consumo di plastica, forse non si mangerà carne, forse non ci si vestirà con abiti in pelle, sicuramente non si fumerà].
uscendo fuori da queste ipotesi, però, escludere dalla dieta liquida i vini convenzionali [uso un aggettivo imperfetto, ma ci siamo capiti] priva il bevitore di tanta conoscenza. il  talebanesimo, inoltre, è pure rischioso: rende nervosi e aggressivi nei confronti di chi non la pensa come noi. in questo caso porterà molti a lanciare anatemi a priori su grandissimi e mai assaggiati bordeaux e a dire grandi, invece, vini in realtà imbevibili, veri e propri non-vini.
i vini buoni naturali esistono. si possono fare, bisogna cercare di farli sempre di più e sempre meglio. al contrario, i vini cosiddetti “del contadino” non sono vini naturali, sono porcherie.

al livewine ho trovato conferme e novità. il bello di manifestazioni come questa sta per me nel fatto, duplice, di rivedere vecchi amici e di incontrare piccoli produttori non piemontesi e senza distribuzione savoiarda.
[c’è una terza motivazione: la qualità della zona pappatoria nello spazio dedicato. quest’anno c’era giuseppe zen (mangiari di strada: tuttora mi commuove il ricordo del suo pastrami), giovanni carena (filrouge), i ragazzi di valli unite con i loro salumi e molto altro]
faccio qualche nome sparso, solo qualcuno, ché di sicuro vi siete già rotti le palle delle mie elucubrazioni.

caprera, azienda abruzzese condotta da luca paolo virgilio. luca fa tre vini, tutti molto buoni. un trebbiano figlio di trebbiano [con la tradizionale riduzione transitoria al naso che si trova nelle nuove annate, da valentini a pepe] dalla bocca cicciona e sapida. un cerasuolo setoso, elegante anche nel frutto. un montepulciano potente, lievemente penalizzato dall’invadenza dell’alcol, eppure molto bevibile.

monica [coluccia] mi aveva consigliato di andare a trovare rita [babini], dell’azienda ancarani. nei pochi minuti al banchetto ho riconosciuto l’energia [“vulcanica”] che mi era stata preannunciata. una sorpresa non solo per le diverse declinazioni dell’albana, vitigno che mi piace fin da quando credevo che servisse solo a fare ottimi passiti, ma anche per i rossi. cito un centesimino affabile, di ottima beva, che nella versione passita trova una dimensione equilibrata e di bella freschezza.

cantina del barone e cantine dell’angelo sono luigi sarno e angelo muto, fiano e greco. la “particella 928” del primo è da alcuni anni uno dei miei due o tre fiano preferiti al mondo. resta nella classifica anche con la nuova annata.
quanto al greco, un anno fa mi innamorai di un sulfureo “miniere”. quest’anno rinnovo la promessa [di acquisto] incappando in una 2016 con un inopinato sentore di ostrica.

da sieman sono andato subito dopo avere annusato il bicchiere portomi in silenzio da luca [formenti]. ammazza che ridotto, gli faccio. sì, ma non è vino, è una birra acida. allora va bene: da cantillonista mi sono catafiondato e, sì, sieman non fa solo vino, ma pure quattro birre. a milano ne hanno presentate due. quella che preferisco si chiama incrocio, con aggiunta di uve incrocio manzoni. detto del naso, è molto lieve in bocca, con un gusto persistente e finale sapido.

ho finalmente conosciuto luca francesconi, di joseph, e finalmente ho assaggiato i suoi vini. luca sta sul garda, in provincia di mantova, dove coltiva le uve tradizionali della zona, autoctone e alloctone. a milano presentava un’ottima garganega rifermentata e tre rossi.
– come mai fai solo vini con blend di uve diverse, perché non un monovitigno?
– perché dalle mie parti il vino si è sempre fatto così, con le uve che c’erano. io le mescolo cercando di interpretare.
il suo rosso joseph, da uve merlot e rondinella e rossanella [spero di ricordare bene], è una interpretazione riuscita. una delle bottiglie che più mi hanno colpito in due giorni.

al banco di meggiolaro c’era riccardo, artefice di vini di grande pulizia, freschi e salati, che hanno nella bevibilità il loro punto di forza. solo bianchi, fermi o mossi [c’è anche un metodo classico] prodotti con uve durella e garganega. li conoscevo già, bevuti diverse volte, li ho ritrovati con piacere. in particolare il “sotocà”, rifermentato con la bottiglia bucata sul fondo.

seguo il suggerimento di andare a trovare antonio failoni, che non conoscevo. antonio ha la barba, il che è un plus. produce un verdicchio ben fatto, rotondo e vivo, senza picchi e senza cedimenti, e un rosato di syrah di buona verve. tra i due blend di rossi ho apprezzato in particolare il rosso piceno, uno di quei vini che si bevono quasi senza accorgersene e che pure ti restano in mente.

e ora un poco [poco] di piemonte.
di elio sandri so poco. avevo bevuto i suoi vini solo una volta. a milano ne ho assaggiati quattro: un dolcetto, un nebbiolo e due barolo. il primo invero poco interessante, il secondo decisamente tannico [troppo, almeno per il momento]. i due baroli, invece. il 2012 [sandri affina i suoi barolo ben più a lungo di quanto previsto dal disciplinare] aveva tannini dolci, mi è parso fresco, di scorrevole bevibilità. lungo al gusto, mancava forse di un po’ di quell’austerità che mi sarei aspettato da un barolo di monforte. [annata calda, mi dice l’uccellino].
più centrato in bocca il riserva 2011, con un corpo maggiore e un intuibile [ma poi, chissà] potenziale evolutivo. quello che cedeva in ampiezza guadagnava in allungo.
lo dico chiaro perché magari non mi sono capito: mi sono piaciuti entrambi.

dulcis in fundo, il vino dolce. il sol 2007 di ezio cerruti.
casa, caminetto, neve che scende. oppure. casa, veranda, onde sugli scogli. oppure. [ad libitum].

buona pasqua laica a tutti. e ricordatevi di non mangiare agnelli.
se non vi piace l’agnello.
altrimenti fate pure.

[invece, se vi piace guardare, qui trovate altre foto, questa volta in b&w]

[no, non sono porno]

cose più o meno antipatiche.

14 Wednesday Mar 2018

Posted by nicola barbato in note, pensieri

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mangio il foie gras. preferisco quello fresco, spadellato al momento, a quello conservato. certo che mi dispiace per le oche, ma lo mangio lo stesso e con grande voluttà. allo stesso modo mi nutro di pesci, che sono quegli animali che dopo essere stati pescati vengono lasciati morire di asfissia sulle barche [cerco di evitare i pesci di allevamento, che vivono in vasche microscopiche, nuotando e cagandosi addoso, gli uni sugli altri]. e mi nutro di vacche, ovini, suini, polli e altri viventi. [no, di insetti no]. preferisco mangiare animali che hanno fatto una buona vita, ma mi rendo conto che lo preferisco egoisticamente, più per me che per loro.
rispetto gli stili alimentari di chiunque non venga a rompermi i coglioni sul mio.
la regola fondamentale è sempre la stessa: la mia libertà finisce dove inizia quella del mio prossimo. e viceversa.
sono ateo. non è una condizione trattabile. ci faccio i conti da trentasette anni e non è qualcosa che si decide. è così.
non mi piacciono le religioni, nessuna religione. in generale non mi piace qualcuno che mi dica cosa posso fare e cosa non posso fare. peggio ancora se lo dice minacciandomi con castighi eterni o allettandomi con la promessa di paradisi pieni di femmine scosciate.
sono contrario allo stato di israele, come è oggi e non in generale. che non significa essere contro gli ebrei, come potrebbe pensare qualche superficiale [come ha pensato qualche imbecille]. significa che sulla terra c’è spazio per tutti e questo israele non lo riconosce.
non mi piace che il mio paese abbia rapporti con la turchia, con l’egitto e con altri paesi analogamente governati. lo so, perderemmo miliardi di commesse, moriremmo di freddo, etc. beh, non mi piace lo stesso.
non mi piace la categoria dei giornalisti, non mi piace cosa è diventata l’informazione nel 2018. vorrei qualcuno che mi raccontasse i fatti, senza omissioni, senza aggiustamenti, senza darmi la sua non richiesta opinione.
a tutti quelli che si bevono frottole come i 35 euro agli immigrati o la teoria del gender o quella dell’autismo da vaccini negherei il diritto di parola. anche a casa loro.
lo stesso vale per chi grida insulti e minacce di morte e auguri di stupri di massa su internet. questo non è diritto di opinione.
il suffragio universale è una solennissima minchiata. il popolo va protetto da sé stesso.
sì, sono anarchico. lo sanno tutti.
i ciclisti dovrebbero essere dotati di patente. ai ciclisti che sfrecciano contromano o sui marciapiedi pedonali e non ciclabili andrebbe sequestrato il velocipede.
conosco persone che reputo intelligenti eppure hanno votato 5s, adducendo motivazioni almeno in parte razionali. credo che abbiano fatto una cazzata immane a mettere il loro voto in mano a un branco di truffatori e/o imbecilli.
non conosco persone intelligenti che abbiano votato lega. oppure le conosco ma mi hanno tenuto nascosto la malefatta.
ho qualche amico fascista. non riesco a non volergli bene nonostante questo fatto brutto.
il partito democratico non è più il partito che votavo. inoltre, temo tanto che fra poco farà qualche mossa che mi farebbe incazzare molto, se fosse ancora il mio partito di riferimento. quindi faccio bene a non votarlo.
dice roth: “come puoi essere un artista e rinunciare alle sfumature? ma come puoi essere un politico e permettere le sfumature?”. ecco. a me piacciono le sfumature.
la flat tax è una presa in giro che non sta in piedi. gli economisti che la sostengono sono smentiti dagli economisti che la ritengono una cazzata enorme che sono smentiti dagli economisti che la sostengono. e così via. morale: non fidatevi degli economisti.
fidatevi solo degli storici.
leggevo tanto. ora leggo poco. un po’ per pigrizia, un po’ per mancanza di tempo, un po’ per via di questi maledetti occhiali multifocali.
la pizza di cracco è brutta come un culo. [magari è buona, eh].
certo che fare polemica su una pizza…
mi piace stare da solo. ogni tanto mi piace stare in mezzo alle persone che mi piacciono. questo è uno dei motivi per cui mi sono appassionato al vino. [l’altro non lo dico].
mi piace scattare fotografie, sopratutto alle persone, alle facce. mi sono sempre piaciuti i fotografi ritrattisti [e quelli che fotografano i fiori]. la tecnica fotografica invece mi annoia a morte.
andando in giro con le stampelle si scopre che la gente non ti vede. ti vengono addosso comunque.
a costo di piantare un casino, in una coda in un negozio o al mercato non faccio passare davanti chi cerca di saltarla. anche fosse una vecchina.
internet è un luogo strano [straniante]. ogni tanto mi capita di andare in un posto e incontrare uno che mi sorride e mi saluta. io dico: scusa, non ricordo. e lui: ma siamo amici su fb, sono tizio! e io: non ti avevo riconosciuto, tu sei quello che come foto del profilo ha uno scaldabagno.
però è bello entrare in contatto facilmente con persone che mai e poi mai avresti conosciuto.
ho imparato a stare zitto quando qualcuno dice una minchiata globale totale. mi faccio tendenzialmente i cazzi miei. però quando non mi trattengo, dopo mi sento meglio.
detesto senza traccia di cordialità i sotuttoioisti delal qualunque. i gramellini, le lucarelli, i travagli, gli scanzi. sono pessime persone e pure pericolose. sapere scrivere non basta ed essere stronzi non è un pregio. essere maleducati è pure peggio.
sui vaccini non discuto più con nessuno. sono la difesa migliore possibile contro certe malattie e vaccinarsi serve a tutelare sia noi che il nostro prossimo. vivere in una comunità deve farci guardare anche alla salute di chi condivide i nostri stessi spazi, il resto sono vuote chiacchiere. per chi non lo capisce c’è un [imperfetto] obbligo di legge. lo so, le paure sono irrazionali. io per primo sono un genitore ansioso. ma il medioevo no, grazie.
non ho voglia di spendere 190 euri per la cuvée winston churchill 2006.
non insistete.
bevo quello che mi piace, naturale o convenzionale, biodinamico o biondo. trovo buffi i talebani, ma li lascio dire. di tanto in tanto li perculo.
ho un brutto carattere. quasi pessimo.
l’ortodossia, in ogni campo, è una cazzata.
cerco di mangiare tutto, di assaggiare tutto. [no, gli insetti no].
adoro le verdure cotte.
e pensare che quando ho cominciato a bere vino con una certa continuità lo champagne non mi piaceva.
ma ho detto che non lo compero e non lo compero.
sopratutto si scrive con tre t.
mi diverte molto scrivere frasi non esplicite ma dalle quali sembrerebbe potersi desumere cosa penso di un tale argomento. lo faccio spesso, anche quando penso l’esatto contrario di quanto, invece, sembra.
ho un debole per tywin lannister.
gli stark sono una famiglia di fessi. jon snow, figlio di tanto padre, è un idiota con un’unica espressione facciale.
non reggo daenerys targaryen.
ho senso dell’umorismo? credo di sì. però forse è un senso dell’umorismo un tantino strano.
in fondo sono un poco cazzone.
lebron james mi sta sui maroni. non riesco a capire come possa essere tanto amato uno che gioca come quelli grossi che, ai campetti, ti menano come fabbri e se li sfiori urlano al fallo. [e se li stoppi pulitamente fingono di essersi fatti male]. ciò non mi impedisce di riconoscere quando fa qualcosa di clamoroso. ma a pallacanéster si gioca in cinque.
mi piace moltissimo curry, che ha un fisico normale, che non fa niente per mostrarsi simpatico, che ha un’applicazione incredibile, che sa quando prendersi le responsabilità e sa quando mettersi da parte. che sa vincere in gruppo.
ho sempre detestato michael jordan, anche quando lo vedevo giocare, perché non c’è mai stato un giocatore come lui.
il mio giocatore preferito era oscar schmidt, la mia squadra era la juve caserta.
il mio allenatore spreferito è pianigiani. totalmente incapace a gestire le partite importanti.
in nba tengo agli spurs, dove allena pop, che è il mio allenatore preferito. anche se forse non faremo i playoffs, anche se ci gioca joffrey “antibasket” lauvergne, anche se forse kawhi leonard non rinnoverà, anche se le magliette mimetiche fanno cagare.
l’epica sportiva dopo cinque minuti diventa ridicola. gli atleti non sono quasi mai grandi uomini. sono persone come tutti noi. per favore ditelo a buffa.
mi difendo dalla stupidità con il sarcasmo e l’ironia. anche dalla mia.
[sarcasmo e ironia sono utili anche contro la malinconia].
mi fanno impressione quelli che vanno in giro sempre con il telefono in mano. e quelli che lo accendono nel buio di un cinema per chattare o controllare se qualcuno gli ha messo un like, infastidendo tutte le file dietro, fregandosene.
guardo troppo il telefono. [non al cinema]. sto cercando di smettere.

chiudo con una citazione da una serie televisiva che, sono sicuro, piacerebbe a chi non la ha ancora vista:

“l’italia è un vecchio paese nel più affascinante dei continenti. ha un clima formidabile. mare, montagna, campagne stupende, città d’arte, cibo eccellente.
e sono tutti, da sempre, infelici”.

il brunello e la bellezza.

22 Friday Dec 2017

Posted by nicola barbato in chiacchiere, note, pensieri, persone, rossi, vini

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cose che si possono imparare in una serata con francesca e marino:
– che tra fare un vino ed ottenerlo c’è differenza, ma giudicare chi non la pensa come noi non è mai giusto;
– che l’eterogenesi è una buona filosofia di vita;
– che è pericoloso andare a montalcino passando da torrenieri o da buonconvento, ché rischi di innamorarti di quel paese che ti appare all’improvviso, da lontano. se ne sta lassù in cima, lo vedi e ti sta aspettando. non incombe, non ti mette fretta;
– che il brunello è unico, ma il terreno di montalcino è estremamente vario. che il genio a montalcino è il territorio e i viticoltori devono farsene interpreti;
– che montalcino se ne sta immersa in una macchia mediterranea piena zeppa di lecci, da cui il nome: monte dei lecci;
– che nessuno può ergersi su un pulpito per dire cosa è e cosa non è brunello, che a montalcino c’è tanto da assaggiare e che ognuno si faccia la sua idea, liberamente;
– che i motivi per non lavorare né potare otto viti, legando ognuna a un palo e lasciando che cresca in verticale, sono due: il primo è che sopra il metro e quaranta i caprioli non arrivano a mangiare i grappoli, il secondo è che così facendo si può impiegare il tempo in qualcosa di diverso dal lavorare;
– che tutto finisce. anche la cultura del brunello può finire. tutto tranne il paesaggio. il paesaggio non finisce e montalcino è un paesaggio;
– che nella vita la fortuna, anche quella di trovarsi a chiamare casa un luogo dove non si è nati, la fortuna, dicevo, esiste.

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[molo di lilith, torino, 19 dicembre 2017. francesca padovani di fonterenza, marino colleoni di podere santa maria: montalcinesi].

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e buon natale a tutti.
[laico, di corsa].

un’arida stagione bianca – 09.08/25.08.2016.

04 Friday Aug 2017

Posted by nicola barbato in note, pensieri, spostamenti

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“welcome to your world”.
è quanto sta scritto su tutti i monitor all’interno del cosobianco dopo l’atterraggio.
al decollo, invece, trasmettevano un video di cosibianchi volanti tra le nuvole, con una voce che recitava un discorso farcito di allah akbar. grazie ai sottotitoli in inglese si capiva che stava chiedendo ad allah di favorire il viaggio.
un po’ come salire su un cosobianco alitalia e sentire il comandante dire: preghiamo il signore che non ci faccia precipitare.
[“bambini, pregate il signore che non ci faccia scoppiare anche l’altra gomma”].

funzione brani casuali del lettore. primo pezzo ascoltato sul cosobianco: china girl.
che c’entra? come sarebbe a dire “che c’entra”?!

l’impressione straniante dell’aereoporto di jedda [che al momento fa cagare forteforte. si attende che finiscano di costruire il nuovo] è data dal gran numero di persone che mi passano davanti senza poterle guardare in viso. donne vestite di nero con abiti che coprono anche gli occhi. se non fossimo a jedda penserei ad una convention di ninja.

qui i lavoratori sono tutti indiani o pakistani.

jedda è l’aereoporto più brutto del mondo. sui sedili della grande sala, dietro di me, si è sdraiata una coppia per provare a dormire. sono occidentali. lei è bionda, stesa su un fianco, mi dà le spalle. la sua camicia [che è una camiciona] è a strisce: bianche, azzurre, gialle, rosse. in ogni striscia c’è una scritta. in brasiliano. [in portoghese].

ogni tanto intercetto con lo sguardo lo sguardo di un ninja.
cosa pensa una donna invisibile, fatta di occhi e cotone?

l’altoparlante schiamazza. starnazza. sembra che stia per esplodere. non si capisce un cazzo, sia per via della lingua sconosciuta, sia per la terribile distorsione del suono prodotta dal volume troppo alto.

tutti gli uomini che entrano nel bagno si lavano i piedi nel lavandino. qualcuno scatarra abbondantemente. tuttavia. tutti quelli che vanno a pisciare, prima di tornare in sala d’attesa si lavano le mani. tutti. proprio come nei nostri autogrill.

scuotendomi dal torpore, scopro troppo tardi che avrei potuto scegliere tra una trentina di film e vederli sullo schermo posto sul sedile di fronte.

le caramelle di saudia sono offerte in monoconfezioni. sembrano schegge levigate di caramelle più grandi. coloratissime, fanno schifo.

la prima alba sul sud africa la vedo di straforo. filtra da un finestrino un po’ discosto, mostrandosi e nascondendosi a secondo delle virate del cosobianco. i colori sono per me nuovi. incredibili.

nei cosibianchi si sta come in ospedale. lì ti svegliano per prenderti la pressione o per darti una pastiglia. qui per la colazione.

tutta la notte al freddo. coperti con la coperta sopra la testa e il cappuccio della felpa e. pensi che vogliano tenerti al freddo per mantenerti tonico e pronto in caso d’incidente, con l’aria gelata che ti arriva in faccia.
invece bastava alzarsi, ruotare la bocchetta, lì in alto, interrompere il getto.

da un cosobianco tanto grosso da farmi balenare immagini di lui che fa un bucone nella pistona, non mi aspettavo un atterraggio tanto morbido.

johannesburg è l’hub che ti aspetti. enorme, pulito, luminoso.
in un bagno c’è un addetto, ovviamente nero, che mi saluta sorridendo e mi ferma, chiedendomi di aspettare. con straccio e spruzzino pulisce l’asse del cesso. quindi si volta e, con sorridente deferenza, mi invita ad entrare nel loculo orinatorio. gentile, quindi, nell’indicarmi l’asciugatore funzionante, ché l’altro è guasto. gentile, quasi vergognoso, nel chiedermi, infine, una moneta.

il tip, la mancia. l’economia sudafricana si basa sul tip. che è istituzionalizzato nei ristoranti, addirittura previsto sui menu. tutto quello che paghi ha un sovrappiù da pagare non solo in contanti, ma anche, se contanti non hai, con la carta.

qui mr. pink non verrà mai.

tutti chiedono il tip. anche i finti facchini delle agenzie di rental car che, vestiti con cappellini e pettorine fosforescenti [riportano scritte che non fai a tempo a leggere] ti aiutano a trasportare i carrelli con le valigie su e giù per le scale mobili. [non ci sono nastri trasportatori. i carrelli sono gratuiti, ma ci si sposta su scale mobili].

la guida a sinistra con volante a destra è indegna di un paese civile.

siamo a nord. johannesburg è a 1.753 metri slm. il navigatore farlocco che abbiamo noleggiato insieme all’auto ci fa finire a pretoria: a nord invece che a sud. traffico decisamente intenso in città, tantissime persone a piedi, pochissime facce rassicuranti. ci sembra saggio affidarci alla cartina.

una volta usciti dalla città la densità di popolazione sembra molto bassa. ci si avvicina alla zona dei parchi e ci sono pochissime case, per lo più isolate. ogni tanto si vedono piccoli agglomerati di basse costruzioni tirate su per lo più con materiali poveri. i mattoni sono rossi come l’argilla, che si vede ovunque. ogni casa ha un giardino, di rado con alberi, ogni casa è recintata da muretti costruiti con gli stessi materiali della casa, sormontati da filo spinato.

il sud africa è povero. la faccenda delle mance è solo un indizio. non è povero come altri paesi africani, ma è povero. le strade sono piene di neri male vestiti che aspettano autobus che li riporteranno a casa dal lavoro e sono piene di neri che tornanao a casa a piedi dal lavoro. i lavori più umili sono svolti dai neri. non c’è un cameriere bianco né un benzinaio bianco e neppure ho visto bianchi lavorare la terra o occuparsi della manutenzione stradale.

chilometri di lavori in corso sulle strade statali a scorrimento veloce. tutti gli operai sono neri, vestiti di arancione. molti ti guardano passare, pochissimi stanno lavorando davvero. decine di chilometri con omini neri dotati di pala o piccone, pochissime auto.

le strade sono disseminate di potholes. le buche. grandi, anche enormi, che si incontrano all’improvviso su strade asfaltate che per il resto sono lisce ben più delle nostre. centrare certi potholes ad adeguata velocità potrebbe farti saltare un semiasse.

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l’asfalto sembra adagiato sul terreno. ai lati della strada non presenta una linea retta, ma è sfrangiato, qua e là morsicato.

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a graskop dormiamo in un garage arredato con molto gusto.

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la strada del blyde river è spettacolare nel vero senso del termine. pianure e vallate interminabili viste da una montagna, montagne che sembrano enormi soufflé [rossi, verdi, grigi. sono i tre colori dominanti].

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andiamo a vedere altri potholes, questa volta naturali, scavati dal fiume nella pietra vulcanica. canyon, pozze, insenature, piccole cascate. è la stagione secca. chissà cosa deve essere quando piove.

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qui, sulle montagne, ovunque si vedono piantagioni di alberi da legname. conifere.

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sulla strada incontriamo i primi babbuini solitari. come da noi i cani randagi.

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ci fermiamo a comperare delle arance. ci sono banchi che vendono arance ovunque, il sudafrica ne è grande produttore. la signora del banco è robusta. chiede a mari se ha qualcosa da mangiare, in auto, per il suo bambino. biscotti? buonissimi, grazie, i biscotti vanno benissimo.

a moholoholo [che tutti pronunciano mohololo] arriviamo nel pomeriggio. è un centro di riabilitazione per animali selvaggi feriti. arrivano da tutti i parchi, ma non dal kruger. nel kruger l’uomo non interviene. ci raccontano di una jena presa in trappola che si era quasi amputata una zampa a morsi per liberarsi. penso che lo fanno anche le volpi.

il giro è indubbiamente turistico, ma emozionante. accarezziamo un ghepardo al guinzaglio. non credevo che i ghepardi fossero così grandi. il pelo è bello, morbido, sopratutto sulla coda.
dopo mi annuso la mano.

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la guida del nostro gruppo è un nero tarchiato e pelato. avrà trentanni. parla cantilenando con un accento terrificante. mastica le parole e le risputa. spesso termina le frasi con “into the wiiiiild”. sembra l’orso yogi che commenta una partita  nba.

c’è una coppia di vecchi leoni. il maschio ha 20 anni, la femmina 25. liberi sarebbero già morti da molto tempo. la guida grida: “good boy!” e il maschio, sdraiato a ventre all’aria, risponde con un verso da basso lirico, mentre la femmina fa il controcanto.

dice una guida: qui ci occupiamo di tutti gli animali, piccoli e grandi. il leone è come gli altri, non discriminiamo la jena (che, poi, ha un ruolo nell’ecosistema molto più importante di quello del leone) solo perché è brutta.

nella gabbia degli avvoltoi chi vuole può indossare un robusto guantone di cuoio che arriva fino alla spalla. mettendo un pezzetto di carne sulla mano gli avvoltoi saltano sul braccio e mangiano.

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in un recinto c’è un gruppo di licaoni. yogiman ci dice che impiegano 50 secondi ad uccidere una gazzella. i leoni, invece, impiegano fino ad 8 ore per uccidere un bufalo.

passeggiare nei cortili e negli spiazzi di moholoholo ti mette in contatto anche con animali fuori dai recinti. marabù, gazzelle, pavoni, un piccolo di rinoceronte rimasto orfano. in una voliera vedo un uccello bellissimo. un grosso gallinaceo nero, con il becco adunco, enorme. ha il capo rosso e sugli occhi si vedono lunghe ciglia, come fosse una bella ragazza spagnola nasuta che balla il flamenco.

entriamo nel kruger a phalaborwa. l’accesso in realtà non è così imponente, eppure è come se fosse quello di jurassic park. pietro e carlo partono a canticchiare la colonna sonora.

allora.
non credevo che mi avrebbe fatto così effetto. ma. entrati nel recinto, dopo un centinaio di metri: zac. una giraffa a pochi passi. poi impala. e impala. e impala. nel kruger ci sono impala a strafottere. e dopo gli impala ci sono anche degli impala.
e qualche impala.

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in un boschetto fitto fitto giorgio vede, non so come abbia fatto, due tronchi neri. sono le  zampe posteriori di un bufalo gigantesco. sta a quindici/venti metri da noi. quando ci sente, lui si volta di scatto, noi ci caghiamo sotto.

l’auto che abbiamo noleggiato ha l’aria condizionata rotta.
dice di non aprire i finestrini, che è pericoloso.
ci sono più di venticinque gradi.
certo.

più avanti, sul ciglio della strada, stanno tre grossi elefanti. è la prima volta che vedo un elefante africano e uno dei tre è davvero grandino. quest’ultimo ha appena srotolato una sesquipedale minchia per fare un pisciatone da pompiere. finito, attraversa la strada. senza scrollare né rinfoderare.

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altri animali. zebre, uno gnu.
impala.

nel pomeriggio c’è l’afternoon walk. che è camminare nel bush. siamo accompagnati da due ranger, john e fiona, esperti ed entrambi armati di fucile. ma camminare in mezzo al silenzioso nulla mette una fifa nera nelle ossa.

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arriva una piccola iena correndo. non si fa in tempo a dire minchia [non quella dell’elefante] che questa frena come nei fumetti, con tanto di nuvoletta di polvere, si volta in testacoda e scappa via.

camminiamo in fila, lentamente. parliamo piano. sono le istruzioni che ci hanno dato. ogni tanto john si ferma e spiega qualcosa mentre fiona, in disparte, controlla i dintorni. john ci dice che gli elefanti vivono circa 60 anni. di solito muoiono di un colpo al cuore. per capire da quanto tempo un elefante è passato sulla strada suggerisce di osservare attentamente la sua merda, spaccandola con la suola della scarpa. avvicinando una mano alla deiezione così aperta si può avvertire, se il passaggio è stato recente, un rassicurante e tiepido calore. questa notizia mi sembra particolarmente utile e conto di trascorrere il resto della giornata prendendo a calci stronzi di elefante.

arriviamo ad una pozza dove un ippopotamo sta facendo il bagno. lo osserviamo da lontano finché non risale la riva e sparisce nel bush. avanziamo verso un elefante che si sta nutrendo lì vicino, quando, da un’altra sponda, john vede l’ippopotamo di prima che torna alla pozza. lui o un altro, poco importa. questa volta schizziamo via noi, come la iena di prima, incitati da john a scappare velocemente. john dice che gli ippopotami sono pazzi. caricano e mordono anche se non provocati e possono correre fino a 40 km/h. lui, in un paio di centinaia di afternoon walk ha dovuto sparare a un elefante e a tre ippopotami. meno male che sa sparare bene. dice.

gli elefanti del kruger sono circa 16.000. nel 1994 erano diventati troppi e dovetterlo abbatterli. li cacciavano dagli elicotteri.

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dormiamo nel parco, a letaba. c’è una lezione all’aperto. i sedili sono in muratura, con una lavagna di fronte, e ci sono tanti bambini che ascoltano. a letaba, finalmente, i bagni hanno le pareti. fino ad ora abbiamo cagato in amicizia e fraternità.

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siccome non si dorme mai, nemmeno il tempo di esaurire l’adrenalina da afternoon walk che alle 5.30 partiamo per il sunrise drive. il quale, come dice la parola, per fortuna si fa su un mezzo a motore. ci dotano di due grosse torce manovrabili per illuminare gli animali. ovviamente quella dal mio lato non funziona. sui sedili alla mia sinistra stanno un mio coetaneo e il di lui giovane figlio, palesemente felice per la levataccia. il ragazzo cerca di rendersi utile. vedendomi armeggiare con la torcia mi mostra cosa dovrei fare. gli dico “it doesn’t work”. mi risponde facendomi un cenno di assenso e spegnendo la sua torcia. forse è per solidarietà che non la userà nemmeno una volta.

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tutti vogliono vedere i big 5. che sono il leone, l’elefante, il bufalo, il rinoceronte e il leopardo.
però ci sono anche gli ugly 5, i cinque cessi: iena, facocero, avvoltoio, marabu e gnu.

in sud africa ogni cameriere si presenta al tavolo dicendoti il suo nome e avvisandoti che lui sarà il tuo riferimento per ogni necessità. se, al mattino, gli chiedi un caffè [che pure fanno] senza colazione annessa, resta spiazzato.

tutti salutano tutti. dicono: hi, how are you? nessuno aspetta la risposta.

andando a sud ci trasferiamo in un altro campo all’interno del kruger, skukuza. compaiono i primi struzzi. poi ci sono kudu, ippopotami, giraffe.

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il campo di skukuza è bello, quasi una piccola cittadina. girando a piedi ci imbattiamo nella vecchia stazione ferroviaria che, a quanto pare, passava di lì. c’è anche la locomotiva, con un paio di vagoni attaccati. tutto abbandonato, polveroso.

alle 20 parte il night drive. sediamo su due grossi camion che seguiranno percorsi in parte diversi. all’inizio, la verità, sembra un pacco: si vedono solo leprotti, quaglie, piccole antilopi notturne [queste rarissime, ci assicura la guida]. poi.

un leone in mezzo alla strada. maschio, giovane, di tre o quattro anni. cammina sull’asfalto davanti a noi, illuminato dai fari. infastidito, si sposta su un ciglio della strada e si siede sotto un albero. si lascia guardare, con gli occhi strizzati per via delle lampade che lo illuminano.
poi.

tre rinoceronti bianchi. alla luce delle torce sembrano fantasmi ballerini, mentre cercano di ripararsi dalla luce.
poi.

una leonessa sulle rocce.
poi.

un vecchio bufalo solitario.
poi.

l’african civet.

indovinate quale è stata l’unica volta in cui non mi sono portato dietro la canon.

ripartiamo. trasferimento di 550 km. dalla strada vediamo un leopardo che mangia un impala. la forza che ha il leopardo per trascinare un impala morto fin lassù proteggendo il suo pasto dagli altri predatori. la forza. noi lo guardiamo. e scattiamo.

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più avanti c’è una pozza. due giovani elefanti ci giocano dentro. arriva un grande maschio, che si spruzza la pelle di acqua e fango usando sia le zampe che la proboscide.

ovunque ci sono alberi spezzati, alberi schiantati, arbusti schiacciati. è opera degli elefanti.

un’impala femmina attraversa saltando. inchiodo. seguono altre femmine. due maschi si fermano sul ciglio della strada, muscoli tesi, gli occhi fissi nel bush. quando l’ultimo impala è passato si voltano all’unisono e seguono il branco. meno di dieci secondi e un leopardo attraversa di corsa e gli va dietro.
ma c’è un secondo leopardo. si aggira nel bush, quasi invisibile. disturbato dalle auto cerca un punto per attraversare. impiega diversi minuti a trovarlo.

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usciamo dal kruger. dopo pochi chilometri la strada diventa l’arteria principale di una piccola città. intorno ci sono case basse, tuguri, baracche. costruzioni con materiali poveri o di risulta, come i mattoni di calcestruzzo e il fango. gli abitanti sono tutti neri, sono tutti poveri.

alla frontiera con lo swaziland c’è la dogana. l’impatto con le funzionarie sudafricane, tutte nere, non è amichevole. sono sgarbate, persino villane ed è chiaro che, parlando tra di loro, ci stanno prendendo in giro per chissà cosa. se provi a chiedere un’informazione fingono di non avere sentito, non ti ascoltano. essere lì è utile per capire cosa significa essere discriminati per il colore della propria pelle. in questo caso la pelle era la mia.

siamo a sud. se a nord si coltivavano alberi da legna sulle montagne e arance in pianura, qui si coltivano canna da zucchero e banane. ma scendendo ancora, tra santa lucia e durban, ritroveremo gli alberi da legname. per chilometri sembra di viaggiare dentro un’unica piantagione.

le banane sudafricane sono piccole, molto buone. maturano lentamente e non fermentano e non marciscono.

pochissimi orti. quei pochi possono avere anche una discreta dimensione, ma sono davvero pochi. le case, basse, che si vedono qui hanno tutte un pezzo di terra davanti che nessuno coltiva.

lo swaziland sembra una svizzera in forma africana. all’inizio. tutto è pulito, tutto è ordinato, niente spazzatura. le strade sono circondate da piantagioni di canna da zucchero a vari livelli di crescita. enormi tir viaggiano trasportando la canna tagliata, lasciandone pezzi e fibre sull’asfalto. un bambino che cammina sul lato della strada ha in mano un pezzo di canna da zucchero trovato per terra. lo addenta, lo succhia.

a bordo strada ci sono sempre animali. bisogna stare attenti. mucche, maiali, asini, capre. pochi i cani, nessun gatto.

procediamo e l’aspetto svizzero cede il posto a quello africano.

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c’è un posto di blocco. un poliziotto enorme si avvicina. sorride, chiedendo: chi siete, quanti siete, dove andate, cosa portate. i suoi incisivi centrali sono talmente distanziati che penso potrebbe farci passare un dito in mezzo.

nessuno ci chiede né ci chiederà mai quella stracazzo di patente internazionale fatta di corsa con il terrore di non poter guidare in territorio africano.

rientriamo in sud africa. alla dogana nuovo giro, altri timbri sul passaporto.

le auto sudafricane sono bianche come chi le guida. toyota bianche. i pochi bianchi che guidano un’auto diversa hanno scelto il grigio chiaro. le auto di altri colori hanno tutte autisti neri.

ho visto barber shop azzurri, case isolate a forma di cubo, con una porta davanti e basta. nessuna finestra. poi campi da calcio in terra battuta, con partite in corso.

adolescenti in ciabatte, sul ciglio della strada, spingono carriole contenenti bidoni di plastica. percorrono chilometri, in ciabatte, per andare a prendere l’acqua.

se, con il buio, il camion che viene verso di te nella corsia opposta ti lampeggia, non ti sta dicendo che incontrerai la polizia e tu non lo manderai affanculo. invece ti sta segnalando che più avanti sulla carreggiata ci sono degli asini che mangiano le canne da zucchero perse dai tir.
in autostrada.

le scuole sono bassi e lunghi fabbricati. gli studenti vestono con i colori della scuola. camicie e maglioni e gilet, le ragazze in gonna. tutti, al passaggio delle auto, salutano. tornano a casa, spesso a piedi. percorrono chilometri.

a parte noi, gli altri automobilisti rispettano i limiti di velocità. nessuno si sposta da una corsia all’altra senza mettere preventivamente la freccia e anche quando c’è traffico ci si muove ordinatamente.

ogni volta che un’auto o un tir si sposta per lasciarsi sorpassare, bisogna ringraziare inserendo brevemente le quattro frecce. il prego che si riceve è un colpo di abbaglianti.

arriviamo alle 18.00 passate a st.lucia, verificando che qui fa buio prima rispetto al kruger. ci sono cartelli stradali che avvisano: attenzione all’attraversamento notturno degli ippopotami.

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primo giorno a st. lucia è safari. partenza alle cinque. ci viene a prendere una guida zulu, molto orgoglioso della sua etnia. gli chiedo della zulu nation e non posso non pensare a quando, ero bambino, si diceva “sei uno zulù”, con l’accento finale.

parco di infalozi. appena entrati ci sono dei rinoceronti bianchi.

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poi, mentre il sole sorge, vediamo due leoni adulti, maschi, che si allontanano dandoci le spalle. tra tutti gli animali che incontriamo, il leone è l’unico che proprio se ne fotte. non si spaventa, non si incuriosisce, non si gira a guardarti mentre se ne va. sono sicuro che allontanandosi molla anche una scoreggia di disprezzo.

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fare colazione in un’area pic nic in mezzo a un parco abitato da animali mette ansia. anche se l’area è recintata. parzialmente recintata. in realtà l’unico leopardo incontrato nelle nostre camminate a piedi, durante l’afternoon walk, non lo abbiamo proprio visto. la guida, john, sosteneva di averne visto uno scappare. in effetti c’era un’impronta.

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anche i predatori hanno paura. se vogliono mangiare non possono permettersi di farsi male, ne va della loro vita. attaccano solo se devono.

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a pranzo, altra area. e cosa vuoi mangiare in un parco? carne. una grigliata, insieme agli altri safaristi su altre auto, con la carne, un po’ secca, insaporita con un sale molto speziato. c’è anche un’insalata di pasta, che è così cattiva, scotta e stramba che la prendo due volte.

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la giornata non è fortunata. a metà mattina compaiono le nuvole e, senza sole e con pioggia possibile, gli animali cercano riparo.

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pioggia che arriva nel viaggio di ritorno, con la nostra guida che pensa di essere keke rosberg in una jeep toyota tutta di ferro, senza imbottiture.

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a st.lucia cena di pesce in un ristorante che sembra fare parte di una catena, però buono. trancio di dorada con verdure saltate: la cosa migliore mangiata negli ultimi giorni.

il mattino dopo piove ancora e il blando trekking che pensavamo di fare salta.

andiamo a vedere l’oceano. non so spiegare, ma guardare il mare non è la stessa cosa.

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dopo facciamo un giro al crocodile center. qui tengono coccodrilli e alligatori di vario tipo. li allevano, anche. molti sono stati salvati, recuperati in pessime condizioni, feriti, nei fiumi. anche vittime di trappole.

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nel pomeriggio è prevista una gita in battello. il tempo resta variabile, il cielo è coperto. così niente coccodrilli, che se ne stanno sott’acqua per via del sangue freddo. solo ippopotami e qualche uccello: un’aquila pescatrice, un airone e un fisher king.

alla guida c’è lawrence du plessis, uno spielberg con leggero strabismo, più alto e con la barba più corta dell’originale. ha un umorismo cinico e un po’ macabro di quelli che fanno al caso mio. risponde con piacere alle domande, come fa chi è appasionato del suo lavoro. parla molto bene, in maniera comprensibile e approfondita.
ama gli elefanti, ammira il leone.
“non ha paura di nulla. ho visto una leonessa e un coccodrillo contendersi un’antilope. è arrivato il leone maschio e con un ruggito e una zampata in testa, wam, ha messo in fuga il coccodrillo”.

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i coccodrilli sono animali velocissimi. regiscono istantaneamente partendo da fermi. se sembrano addormentati, non vi fidate lo stesso.
“crocodiles don’t make mistakes”
e gli squali, che nella laguna dove ci troviamo, che è collegata all’oceano, sono presenti?
[la utilizzano come nursery per allevare i piccoli]
“crocodiles eat sharks like hamburgers”.

a proposito di squali. ci racconta di quando, era in canoa sull’oceano a pescare, un grande squalo bianco gli passò sotto.
ma perché vai in canoa al largo se è pericoloso?
“perché mi piace pescare”.

secondo lawrence non bisogna temere gli ippopotami, basta stare attenti. mai mettersi davanti a un ippopotamo. mai mettersi uno davanti e uno dietro, perché l’ippopotamo si sente in trappola e attacca. a trenta metri si è sicuri.
d’estate ci sono 40-45 gradi e gli ippopotami vivono perennemente in acqua perché il sole gli brucia la pelle. ma d’inverno, quando la temperatura raggiunge al massimo 25 gradi, sono costretti a cercare l’acqua e a spostarsi. non nuotano, camminano sul fondo e di profilo, con il muso semisommerso, somigliano molto ai cavalli.
sono animali fondamentali per l’ecosistema anche grazie alle loro abbondanti cacate: nel fiume nutrono i pesci, sulla terra concimano.

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lawrence ci consiglia una trattoria di pesce alla quale non avremmo dato un rand. è un pub vicino al benzinaio, ma lui dice che è l’unico locale che ha pesce davvero fresco. mangio un red fish, molto buono, con carni dolci e delicatissime. 115 rand che comprendono anche abbondanti patate fritte. e infatti all’uscita puzziamo come una friggitrice. con aglio. tanto aglio.

accendiamo la luce dell’appartamento. là in fondo gregor samsa mi sta guardando. lungo circa quattro centimetri, zigzaga velocissimo. lo manco ripetutamente con la scopa. poi ha la pessima idea di nascondersi sotto una mia ciabatta abbandonata.

il giorno dopo si va a durban per passarci la notte e proseguire con un cosobianco fino a port elizabeth. facciamo un giro al parco di isomangalizo. il bello dei parchi è che sono tutti diversi. il kruger è il più grande, per lo più pianeggiante [almeno nella parte che abbiamo visitato noi, da phalaborwa a scendere], con bush esteso alternato con zone più aride. infolozi è molto più verde ed è montuoso, salite e discese, mentre isomangalizo sembra collinare, con rilievi più dolci. anche qui si alternano zone di bush e piccoli boschi.
piove. vediamo pochi animali: rinoceronti bianchi, facoceri, kudu e zebre.

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due tappe per vedere l’oceano: mountain rocks e capo vidal.

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l’oceano è una buona approssimazione di infinito.

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non visitiamo durban. passandoci in mezzo dà l’impressione di essere molto estesa, con quartieri distribuiti su un territorio per lo più collinare. le case viste dalla highway sono simili. a destra tutte bianche con i tetti verdi, a sinistra tutte marroni, e così via.

molti i lavori in corso anche qui. le autostrade non sono il massimo della sicurezza: si può andare a 120 km/h con lunghi tratti a senso alternato senza guardrail. vedo otto lavoratori neri attorno a una buca, ognuno fermo, appoggiato con le braccia sul manico della sua pala. anzi, sono sette: l’ottavo è nella buca. scava. gli altri lo guardano.

a durban dormiamo in una guest house con stanze indipendenti. c’è una grande sala comune, un ampio patio, una piscina. utilizziamo solo le stanze, peccato. siamo in un quartiere residenziale con belle case basse e molte guest house. alcune ville sono spettacolari. il filo spinato che avevamo trovato altrove è sostituito da fili elettrici sulla sommità degli alti muri di delimitazione.

al mattino, prima dell’alba, restituiamo le nostre chevrolet inserendo le chiavi in una buca simile a quella per le lettere. nessun controllo, speriamo bene.

atterraggio di merda.

l’areoporto di port elizabeth è piccolo, la pista è corta, ha piovuto da poco. cambiando euro scopriamo che il rand ha guadagnando un punto sull’euro in una settimana. fico.

le auto sono di nuovo chevrolet aveo, ma [sorpresa!] funziona tutto. si guidano bene e c’è l’aria condizionata.

viaggiamo con l’ausilio di sole cartine. i quartieri che si susseguono ai lati delle strade sono una continua contraddizione visiva. case signorili adiacenti a baracche. le baraccopoli, dette township, sono enormi. le abbiamo viste a joahnnesburg e a durban, le vediamo alla periferia di ogni grande centro abitato, ma anche isolate.

la strada verso capo st.francis è costeggiata da enormi pascoli. le mucche sono di razze diverse. alcune pezzate, altre marroni a pelo lungo, senza corna. [chissà cosa ne direbbe nicholas joly]. oltre i pascoli ci sono: una baraccopoli, una grande proprietà recintata e filospinata. quindi st. francis. per lo più vediamo villette: è una enclave per ricchi. fuori dalle case ci sono delle strutture in legno a cuneo. possono sembrare mangiatoie per bovini o culle per grossi infanti: servono a riporre i sacchi di spazzatura per la raccolta.

c’è un grosso faro bianco.

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mentre vado verso l’acqua incontro chris. chris è un vecchio residente, alto e magro. indossa una coppola con inserti in pelle. è del posto. o, meglio, dice che lui sta lì. mi racconta del faro, ridipinto un anno prima, della sirena, che hanno dovuto installare per vincere la nebbia. è cordiale e sorridente, sembra simpatico. poi mi chiede dei problemi che abbiamo in italia con l’immigrazione dall’africa e allora preferisco salutarlo. non ho voglia di conoscere nei dettagli il suo pensiero.

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davanti alla spiaggia c’è una passeggiata che da un lato conduce agli scogli e dall’altro a una spiaggia.

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guardo le onde che esplodono contro gli scogli. le fotografo ma le foto non rendono l’idea. nessuna foto ad un’onda che esplode rende mai l’idea.

passerei ore a guardare l’acqua che si muove.

st. francis, dunque. è una cittadina estiva per bianchi ricchi. bella, pulita, ordinata e piena di putholes. qui i giardinieri, gli spazzini, gli operai sono tutti giovani neri. qui gli abitanti, residenti o villeggianti, sono tutti bianchi maturi.

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ci fermiamo per guardare il canyon del fiume storms. si passa sotto un cavalcavia per mettersi di fronte ad un strapiombo agghiacciante. non riesco a starci più di qualche minuto, nonostante le protezioni.

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arriviamo allo tsitsikama. un parco che vicino al parcheggio sembra la cornovaglia con l’oceano al posto del mare. lo dico come se ci fossi stato, in cornovaglia. ponti sospesi sull’acqua, scogli, insenature, piante, indiani. da un lato sembra nord europa, dall’altro in alcuni punti sembra una foresta pluviale.

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una coppia di indiani sta, in equilibrio molto precario, su una roccia mentre un amico armato di un potente i-phone gli scatta un intero book fotografico.
alla fine non sono caduti.

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arriviamo a plettemberg bay che è buio. il gestore della nostra guest house è horst, un austriaco che vive qui da quattro anni. “troppo stress in austria”. domani a che ora dobbiamo lasciare le stanze, horst? “quando volete. fate trekking, tornate, vi fate una doccia. no stress: siamo in sud africa”.

horst ci manda al look, un locale sulla spiaggia. cibo abbondante e buono. ritrovo un sauvignon conosciuto, il southern right [questa volta un po’ giovane: 2015]. io prendo una porzione gigantesca di merluzzo [kabeljou]. a st. lucia avevo mangiato red fish, a mosselbay butterfish. devo ricordarmi di controllare come si chiamano in italia.

molti fanno l’autostop. lavoratori che ritornano a casa, così sembrano. stanno in piedi sul ciglio della strada con una banconota verde da 10 rand in mano. qualcuno ha quella marrone, da 20, probabilmente perché deve andare più lontano.

cartelli stradali molto fantasiosi un po’ ovunque. c’è anche quello che vieta l’autostop.

pioviggina. smette. andiamo a robberg.

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un posto incredibile.

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l’oceano è sempre furibondo.

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però da lontano è rilassante.

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doccia e ripartiamo, sgranocchiando snack di carne secca: kudu e struzzo. salutiamo horst, che ci offre un bicchiere di merlot. viene spesso in italia, il vino gli piace molto. gli do il mio numero, non lo vedrò mai più.

altri 170km e siamo a mossel bay. città più grande e meno accogliente, deserta già alle 19.30. enorme luna piena. ceniamo sul lungooceano.

le donne nere sono spesso grasse. cosce enormi, forse a causa di una costituzione fisica particolare, forse per via di un regime alimentare sballato. culi pure enormi.
“però a loro stanno su!”.

la cucina in sud africa è fritta. friggono tutto oppure grigliano, spesso dopo avere impanato. e fritto.
il pesce? fritto.
aglio ne abbiamo? sì.

capo aguilhas è la punta più a sud dell’africa, dove idealmente oceano indiano e oceano atlantico si fondono. l’acqua ha un colore di giada che la giornata uggiosa fa solo intravedere.

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una bambina indiana bruttina, con calzamaglia grigia a cuori rosa, gonnellina e stivali da pioggia, si fa un selfie cinematografico piantandosi la cinepresa del papà in faccia con aria decisa e compresa, strizzando le labbra.

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questo qui sopra, ovvio, non è la bambina indiana.

a gaansbai non c’è niente. solo squali. bianchi. qui il turismo si basa sulle immersioni in gabbia per andare a vedere quegli orribili pescioni da pochi metri. squali ovunque. sulle insegne, sulle case, sui cartelli. le guest house hanno nomi come: the white shark gh.
siamo fuori stagione, le barche sono messe in secca e si possono vedere le gabbie [minuscole, cazzo]. se c’è un posto di merda in sud africa è questo.

la segnalazione di un cartello che promette danger point ci spinge ad andare a controllare di che si tratta. c’è un faro, sì. ma non ci si arriva.

hermanus è una bella e ordinata località di villeggiatura. case basse, bianche e dalle forme non sempre aggraziate. va detto chiaro: il gusto architettonico sudafricano pone più di qualche interrogativo.

a hermanus c’è una pizzeria che si chiama “col cacchio”.

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siamo a hermanus per vedere le balene. le southern right ritratte sull’etichetta del sauvignon bevuto a plettemberg. sulla barca guidata da ken, ormai attempato e corpulento ex fidanzato di barbie che con gli anni ha preso ad assomigliare ad abatantuono [non voglio sapere come sia cambiata barbie], siamo molti. pure troppi. ken ci invita ad acquistare il dvd della giornata, per portare con noi uno splendido ricordo. buona idea. così mi rivedo a scattare foto a raffica come un cretino in mezzo a una massa di altri indemoniati.

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però le balene.

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viaggiamo attraversando distese infinite, per lo più coltivazioni di colza o di altre piante basse. qualche allevamento: struzzi, bovini, ovini. le distese non sono affatto piatte: il saliscendi delle colline riempie la visuale ovunque ti volti. gli interminati spazi sono verdi, gialli, grigi e un poco marroni.

via verso betty’s bay. si va dai pinguini. ovviamente dopo pochi chilometri inizia una sottospecie di diluvio che ci fa disperare di riuscire a vedere qualcosa. e invece. sulla piccola spiaggia si scorgono dei birilli bianconeri che oscillano spostandosi. vanno a raggrupparsi dove c’è la discesa per le barche. si fanno avvicinare restando timorosi. nonostante la pioggia fitta, puzzano come carogne.

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viaggiamo verso cape town sotto la pioggia e sotto il vento. da betty’s bay parte una litoranea che sarebbe spettacolare se si riuscisse a vedere qualcosa. le montagne, quando le nuvole si spostano, appaiono come polpi giganti, verdi e rossi, con i tentacoli protesi sull’oceano. nella prossima vita ci devo tornare con il sole.

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township a profusione annunciano che stiamo arrivando a cape town. sono tante e sono molto grandi, recintate con muretti in cemento o con reti o con materiali di fortuna. le indovini da lontano, prima di vederle, per via delle foreste di pali della luce da cui penzolano centinaia di allacciamenti. ci sono anche parabole satellitari per la televisione. alcune agenzie turistiche organizzano tour all’interno delle township. un po’ come andare allo zoo, immagino. vedo uscire ed entrare persone distinte, in giacca e cravatta e valigetta da lavoro.

a cape town c’è un tizio che piscia contro un muro. come a nimes, come a porta nuova, come sulla torino-savona.

l’acquario di cape town va bene per i bambini. vasche piccole, pinguini in cattività [sempre fetidi]. a genova si metterebbero a ridere.

una cosa che non credo cambierà mai più, dopo avere visto tanti animali in libertà.
non riesco più a guardare quelli in gabbia o dentro una teca.
focalizzo l’idea di zoo e la rifiuto totalmente.

allo stesso tempo, ogni volta che vedo un animale, di qualunque tipo, non posso fare a meno di chiedermi che gusto abbia.
balene, pinguini, facoceri. li vedo e mi viene voglia di mangiarli.

ceniamo in un ristorante del centro commerciale sul waterfront. assaggiamo la cucina africana. è un ristorante grande, che strizza l’occhio con qualche pretesa di eleganza, anche sulla carta dei vini. ma se in carta hai la 2013 e mi porti la 2014 [pinotage. un vitigno dimenticabile], se ti chiedo un bicchiere di vin de costance 2009 e mi porti un 2011, non te la puoi tirare.

kudu, springbock, gnu, struzzo. i primi tre sono abbastanza stopposi, per quanto gustosi. lo struzzo è buono. la salsiccia di facocero è una salsiccia di facocero.

il ristorante si chiama k.

nei bagni leggo il marchio sulla tazza: suda.

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il giorno dopo prendiamo gli autobus a due piani per girare. ci sono tre linee e si può scendere ovunque si voglia per poi risalire. ti danno delle cuffiette con le quali ascoltare curiosità e notizie registrate su quello che vedi.

cape town è magnifica.

intorno oceano e in mezzo una montagna piatta, la table mountain.

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con una teleferica si sale in cima. nonostante le rassicurazioni dei venditori di biglietti circa la bellezza della giornata, sopra c’è un materasso compatto di nuvole. niente panorama, solo camminare per due ore con tanta umidità e tanta propiocezione.

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fa freddo.

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riprendiamo l’autobus. cape bay, dal lato opposto della table mountain, è il luogo delle ville sull’oceano. dopo c’è sea point, con le spiagge e un lungooceano davvero lungo, con parco laterale. sul prato dormono, in ordine sparso, alcuni senzatetto.

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con il tramonto, prima che siano le 18.00, chiude tutto.

il sud africa è un paese in fieri. lavori in corso sulle strade, edifici nuovi e in costruzione, fondamenta appena scavate, palazzi di uffici, cantieri per la fibra ottica ovunque. qui a ovest la cosa è evidentissima. eppure l’impressione, che mi confermano alcuni abitanti del posto, è che i sudafricani non abbiano voglia di fare un beneamato. non che ci sia qualcosa di male, anche io vorrei poter nullafacere. le misure di sicurezza per i lavoratori sono quasi nulle o perlomeno invisibili. la presenza di cantieri viene segnalata da un singolo uomo [o donna] che, in piedi dove il cantiere inizia, sventola una bandiera rossa di fronte alle auto. [olè].

la sicurezza. uomini e donne che ai lati delle strade fanno jogging o vanno in bici. anche quando le strade sono highways o freeways. qui sono molto più numerosi che a est. si incontrano anche su stradine a strapiombo sull’oceano, al buio, controsole, silouhette nere che ti corrono incontro dove a malapena c’è lo spazio per l’auto.

moltissime foto. per lo più sbagliate, per lo più del cazzo. se non mi si fosse ripetutamente inceppata la canon, ne avrei fatte anche di più. molte agli animali, molte ai paesaggi, pochissime [strano per me] alle persone, agli sconosciuti che incrocio. non so perché, me ne sono reso conto alla fine del viaggio. di certo non ho voluto infastidire nessuno [a volte sono fotograficamente molesto]. di proposito non ho fotografato né i tanti poveri che ho visto né le township. [enzo, il manager italiano del nostro albergo, dice che ci sono case popolari governative che vengono assegnate ai meno abbienti, come si diceva una volta. questi però spesso preferiscono subaffittarle e restare nelle township. che sarebbero, da quanto ho capito, la prima casa di chi arriva in città dalle campagne].

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enzo ci suggerisce una visita al west coast national park. in questa stagione fioriscono i prati proprio sull’oceano. è aperto per i visitatori per pochi mesi all’anno. fiori gialli, bianchi e arancioni, simili a piccole gerbere. l’effetto ottico è incredibile. le foto non rendono e io non sono un fotografo.

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incontriamo una coppia di struzzi sulla strada. il maschio scappa subito. la femmina ha atteso a seguirlo quanto bastava per permettermi di scattarle una foto.

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nel parco troviamo un ristorante dove ci fermiamo a prendere un caffè. è una vecchia fattoria di gusto coloniale, bianca con il tetto in paglia, con giardino recintato da un muretto basso e una corte centrale al di là della prima sala. l’arredamento è ottonovecentesco. c’è un bancone di legno scuro, ci sono tavoli di legno anneriti dalle pipe che vi sono state appoggiate, ci sono grandi poltrone di pelle, vecchi quadri e stampe. grosse corna di erbivori stanno appese alle pareti.

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i camerieri sono vestiti di nero e sono neri e giovani. gli ospiti sono vestiti di bianco e sono bianchi e di mezza età. sembra una rimpatriata di nazisti in pensione. in realtà tutta la zona costiera ad ovest sembra abitata da bianchi ariani con servitori neri. così come anziani ariani sono quasi tutti i visitatori del parco, sorridenti nelle loro dentiere e felicemente fotografanti.

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la bassa marea.

nel parco ho ucciso il secondo uccello del viaggio. è andato a schiantarsi contro la portiera dell’auto in movimento. ha fatto thump. [il primo lo avevo ucciso al kruger o in swaziland, non ricordo: mi aveva preso sulla carrozzeria nell’angolo alto dove si incastra il parabrezza].

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al ritorno è troppo tardi per la visita a sight hill, che pare sia un classico appuntamento per vedere il tramonto su cape town. il tramonto ci appare, invece, dai finestrini dell’auto, viaggiando sulla panoramica [a pagamento] che passa da hout bay. come diceva mia nonna: vale il prezzo del biglietto.

su di una curva c’è un cartello: pietro ferrero.

stiamo per andare a cena e mari si accorge di avere beccato una zecca al parco. pinzette dimenticate. indirizzata in ospedale dalla farmacia all’angolo [la farmacista la ha accompagnata a piedi fino ai taxi], la visitano subito e subito risolvono. cosa inattesa: sono gentilissimi. all’uscita la dottoressa ha aspettato che arrivasse il taxi prima di tornare al lavoro. per sicurezza.
il mattino dopo mari è andata a comperare un mazzo di fiori da portare in ospedale.
i miei amici sono fatti così: bene.

la gentilezza è una malattia endemica. se chiedi qualcosa a qualcuno, questo si fa in quattro per aiutarti. se chiedi un’indicazione, ti accompagna. è un paese povero e come tutti i paesi poveri è anche pericoloso [cape town è considerata tra le città più pericolose del mondo, mi dicono], ma qui la gente si aiuta.

enzo racconta di un giorno in cui era stato male. va in farmacia a prendere delle medicine e al momento di pagare gli mancano 10 rand. che al cambio di agosto 2016 fanno sette euro, ma nell’economia del luogo valgono almeno il doppio. la commessa della farmacia [la commessa, non la proprietaria] gli dice: non ti preoccupare, stai male, prendi le medicine, i soldi te li anticipo io.
e mette 10 rand suoi in cassa.

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giornata al capo di buona speranza.

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in fondo, dal capo, si vede la table mountain.

cena da marco’s, ristorante di cucina africana con chef africano [marco]. molto tipico, non ci sono solo turisti, ma anche gente del luogo. mangio finalmente il coccodrillo: la coda è molto grassa, ha consistenza simile al baccalà e sapore che è una via di mezzo tra il baccalà medesimo e il pollo. preferisco il baccalà. e il pollo.

da marco’s c’è un concerto in corso. tre xilofoni e una batteria. sono bravissimi e rumorosissimi. si chiacchiera a fatica, ma la musica è bella, mette allegria. arrivano tre ballerine, due ciciunarie che le guardi e dici madovevuoiandare. e invece madovevoglioandareio. sono agilissime.

il nostro cameriere è un nero alto e sorridente che ci intorta fin dal primo minuto, coadiuvato da altri suoi colleghi. ci vende uno shiraz del 2010 a 400 rand. è fuori carta e io provo a chiedergliene un altro, in carta a 260. mi propone di mostrarci le due bottiglie: ecco, quello che vuoi è del 2014, abbiamo anche il 2010 ma costa come quello che ti ho proposto io che, però, è mooooolto meglio.
lo guardo.
mentre penso “sono un turista, è giusto: inculami”, mi sento dirgli: va bene.

il vino è discreto, nella parte discendente della sua vita. non vale 400 rand. nel conto, poi, apparirà una sorta di coperto, mai visto in altri ristoranti. machissenefrega, la serata è bella, ci divertiamo.

mal di schiena negli ultimi giorni. sospetto delle mie scarpe da trekking nuove, pagate troppo poco per essere appena decenti.

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guidando ho costantemente detto destra al posto di sinistra e viceversa. effetti della guida al contrario, spero.

altri pinguini, questa volta con il sole, a boulders beach. questi animali deliziosi, adorati dai bambini di tutto il mondo, sono, e so di ripetermi, quanto di più puzzolente io abbia mai annusato. sentori di pesce marcio, alghe putrefatte, guano e merda.

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sul coso arancione della mango [il cosoarancione] che ci riporta a johannesburg gli steward sono vestiti con gilet e pantaloni neri a sigaretta e camicia a righine sottili arancione, bianche e nere. più che steward sembrano ballerini di raffaella carrà, senza enzo paolo turchi.

il mio rapporto con i cosibianchi [ma pure cosiarancioni] è migliorato in questi quindici giorni. ma decollare resta un momento orrendo.

è la stagione secca, l’inverno. per tutto il viaggio ho avuto in mente il titolo di un vecchio film ambientato nel sud africa dell’apartheid: a dry white season. c’erano donald sutherland e marlon brando. ricordo poco del film. oggi l’apartheid è stato abolito, i diritti sono uguali per tutti mentre le differenze sociali restano abissali.
nel viaggio da est a ovest abbiamo incontrato nelson mandela ovunque: sulle magliette, sui palazzi, sulle tazza per turisti, sui cartelloni stradali. c’erano il suo volto o le sue massime.
a cape town un palazzo con le finestre colorate riproduce un mandela felice.

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[un viaggio impossibile da dimenticare. bellissimo. grazie a mari, ad annalisa, a martina, a enrico, a pietro, a carlo, a giorgio. scusate se ci ho messo quasi un anno a finire di scrivere].

 

note: travaglini, gattinara riserva 2006.

13 Wednesday Mar 2013

Posted by nicola barbato in note, rossi, vini

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quando l’auto su cui viaggi viene colpita da un’altra auto su cui viaggia uno che probabilmente ha perso la capacità di frenare con efficacia causa lieve abuso alcolico [vinaccio di sicuro] e che però a rigore non ha del tutto torto, quando questo evento si verifica in un giorno nel quale l’umore è percorso da una sottile ansia, la cosa migliore da fare è tornare a casa e percorrere in discesa le scale che portano alla cantina alla ricerca di una bottiglia di quelle buone.
in questi casi “quelle buone” significa “quelle cui voglio bene”.
il mondo è pieno di vini buoni o grandissimi. è molto meno pieno di vini che dissodano il terreno interiore. rivelando qualcosa che può essere un ricordo, una familiarità o, semplicemente, una sorpresa.
queste caratteristiche si ritrovano a volte anche tutte assieme nei vini a base di nebbiolo.
[lo so, sono di parte].
così succede che, mentre mi stavo decidendo tra un lessona 2006 di proprietà sperino e un barbaresco pajorè 2005 di rizzi, la mente mi è caduta sul gattinara riserva 2006 di travaglini.
che è la bottiglia che ho portato sopra, in casa.

travaglini è l’azienda più importante di gattinara.
non si offenda nessuno.
è importante per il nome e per l’estensione dei vigneti. per anni travaglini è stato il produttore di riferimento per tutto il territorio e per buona parte di quello che chiamiamo nord-piemonte.
è importante per la qualità dei vini. una garanzia. per ogni annata che ho assaggiato, quale che fosse il vino (riserva, “base”, tre vigne), non ho mai potuto pensare un aggettivo che non fosse almeno: buono.
è importante per la storia e per la tradizione. giancarlo travaglini più di cinquant’anni fa si inventò una bottiglia la cui forma particolare doveva servire, versando, a trattenere all’interno i sedimenti lasciati dal nebbiolo. sicuramente lo fece anche per dare maggiore riconoscibilità e appartenenza territoriale ai suoi vini. quella bottiglia è ancora usata per tutti i gattinara aziendali, anche se la sua forma negli anni è stata resa più moderna e il vetro scelto è oggi satinato. basta entrare in una qualunque enoteca per riconoscere da lontano le bottiglie di travaglini.
oggi giancarlo non c’è più, ma il suo lavoro continua. e i suoi vini sono sempre buonissimi.
a volte straordinari.

dicevo del riserva.
nebbiolo al 100%, è prodotto solo nelle annate che vengono ritenute favorevoli. deriva da selezione delle uve di nebbiolo nei migliori vigneti di proprietà, con rese abbastanza contenute: inferiori ai 65 quintali per ettaro. la vinificazione è effettuata separatamente rispetto agli altri gattinara prodotti e il vino riposa almeno tre anni in botti di rovere oltre a uno in bottiglia prima di essere posto in commercio. i terreni collinari (il disciplinare di produzione della docg, del 1967, vieta la denominazione per le uve coltivate a fondo valle) sono quelli tipici del luogo: calcarei e rocciosi con tracce di porfido e altri minerali.
l’ho stappato circa un’ora prima di andare a tavola. quindi io e la signora ci siamo impegnati a godercelo, studiandolo, tra la cena e il pranzo del giorno dopo.
abbinamento riuscito con la polenta integrale, sia condita con il gorgonzola che con lo spezzatino.
[buonissimo lo spezzatino: brava].
ragionandoci su, è venuto fuori che.
il colore è meraviglioso. granato limpido e cristallino, luminoso e trasparente.
al naso è una progressione continua e in continuo mutamento. quasi timido nell’intensità appena stappato, si percepisce invece forte e complesso dopo adeguata ossigenazione.
è una complessità che spazia dal regno vegetale a quello animale, passando per il tramite del minerale.
subito viola e rosa, con delicate note balsamiche in sottofondo e una lieve speziatura. quindi buccia di mandarino, tamarindo, radice di liquirizia, note gessose.
il tutto è completato, in piena armonia, da una elegante sensazione animale che si fa interprete e sostegno di tutte le altre descritte.
una sensazione di pellame, non cuoio. come di una custodia di pelle, vuota ma che ha contenuto tabacco dolce.
[però sentore di fagiano, che è la minchiata che ho detto a tavola, faceva più ridere].
il tamarindo, poi. lo ritrovo spesso nei nebbioli coltivati in difficili condizioni di maturazione. che sia gattinara o valtellina. è anche una questione affettiva.
perché mi ricorda di quando, ero bambino, affondavo le mani nel vassoio dove mia madre teneva le caramelle baratti cercando quella con la scritta marroncina.
in bocca il vino è giovane.
i tannini sono impastati nella massa, ma si sentono eccome, come volessero proteggere il vino. ma, l’ho detto, sono di parte, e i tannini del nebbiolo quando sono maturi mi piacciono anche bambini, anche quando mi prendono a schiaffi. e non è questo il caso.
in bocca si muove con agilità e pure pienezza, ben sorretto in equilibrio da acidità e alcol. la sensazione pseudocalorica è notevole (i gradi dichiarati sono 13,5), non invasiva bensì corroborante.
e in bocca resta, confermando al gusto quel che aveva promesso al naso, per molto, molto tempo dopo la deglutizione.
è un vino che farà strada. probabilmente sarà al suo meglio fra quattro o cinque anni, ma durerà sicuramente ben più a lungo.
sono contento di averne ancora una bottiglia in cantina.
per poterlo ritrovare in futuro, in occasioni migliori.

http://www.travaglini.com/

note: rosso di marco 2007.

19 Tuesday Feb 2013

Posted by nicola barbato in note, rossi, vini

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marco de bartoli ci ha lasciati quasi due anni fa, nel 2011. da quello che so e che ho letto di lui nasce il rimpianto di non avere avuto occasione di incontrarlo di persona. d’altra parte al suo lavoro mi sono avvicinato solo recentemente. perché? perché negli anni mi sono lasciato suggestionare dal marsala di produttori ben più celebrati e sponsorizzati di lui, convinto che quello fosse il paradigma. e invece no. la generalizzazione è spesso un errore grave nel quale è facile cascare. avevo sempre pensato al marsala come ad un vino interessante più che altro per la cultura e per la storia che contiene. e per qualche divertente abbinamento gastronomico.
poi mi capitò di assaggiare il vigna la miccia, il più giovane dei marsala di de bartoli, e capii quanto ero stato stupido.
seguirono la riserva 10 anni, le riserve millesimate, il vecchio samperi (sia il ventennale che il monumentale trentennale). vini che spiegano con i fatti e con educazione la grandezza del marsala e della terra in cui nasce.
ma qui non parlo di marsala, bensì di uno dei pochi rossi prodotti da de bartoli: il rosso di marco (i.g.t. sicilia).
viene da una piccola vigna con terreno calcareo-sabbioso, piantata nel 1987 con viti di syrah e di merlot. un rosso anomalo sia per la composizione delle uve (un vitigno tradizionale del rodano e l’altro bordolese) che per la filosofia aziendale, votata all’esaltazione del territorio siciliano. le rese sono molto basse, intorno ai 40 hl per ettaro. dopo la vinificazione in acciaio, ovviamente separata per le due uve, e l’assemblaggio, il vino trascorre due anni in barrique di rovere prima di essere messo in bottiglia, dove riposa altri sei mesi.
il mio primo rosso di marco fu un 2008. lo ricordo per il colore rubino particolarmente brillante, per il frutto cristallino, per i tannini setosi, per la complessità e l’eleganza dei profumi, per l’equilibrio del gusto. una vera sorpresa.
il 2007, bevuto qualche sera fa, è tutto diverso.
[occorre prestare attenzione nel versarlo: il vino non è filtrato, lascia un consistente residuo].
già nel colore, sempre rubino ma molto più concentrato e scuro. nel bicchiere si apre lentamente, con il frutto che si staglia sempre nettissimo al naso. ma la ciliegia fresca del 2008 è stata qui messa sotto spirito, con l’aggiunta di qualche mirtillo. complessità notevole: oltre alla frutta, radice di liquirizia, anice, tabacco, caffè, cuoio, pepe rosa.
in bocca la massa si concentra al centro del palato, con grande compattezza ma senza che la componente acida riesca a percorrerne pienamente la solida struttura. ne risente, lievemente, l’equilibrio complessivo. i tannini sono maturi, anche se più ruvidi di quelli che ricordavo.
la persistenza è buona, anche se non eccezionale, con l’impronta del merlot che è inconfondibile.

il 2008 è un ricordo bellissimo. il 2007 è di certo buono: dovessi dargli un punteggio in centesimi starebbe intorno agli ottantacinque punti.
dopo il phineas, un altro vino la cui produzione è cessata.
sì: la vigna è stata espiantata l’anno scorso, le viti di syrah e di merlot sono state sostituite da quelle di grillo.
ma per festeggiare un compleanno, per ripensare a un passato che non tornerà, cosa c’è di meglio?

http://www.marcodebartoli.com/

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