Tra cielo e terra.

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1.
Ci metto un po’. A tirare fuori tutto subito c’è il rischio di lasciarsi condizionare dall’entusiasmo, sopraffatti da emozioni e sentimenti e impiastricciati di melassa. Serve tempo. Fermarsi, riflettere, scrivere. Scrivere è il modo migliore per mettere in fila [in ordine] i pensieri.

Con la fotografia funziona più o meno allo stesso modo, il risultato non è immediato come può sembrare a qualcuno.
Scatto molte foto, molti ritratti, anche riuscendo a essere molesto. In passato usavo una reflex, ora sono passato al telefono. Una macchina fotografica dà maggiore soddisfazione ed è più precisa, ma va usata quotidianamente. Perdere la mano è facile, riacquistarla è un’impresa. Dopo circa un anno di pausa, le foto mi vengono sghembe, sovraesposte oppure buie, male inquadrate. Il telefono ha il duplice vantaggio di pesare e ingombrare meno rispetto a una reflex. Ha una minore definizione, dà minore autonomia nelle scelte, lenti e obiettivo sono fissi. Però è sempre a portata di mano e, sopratutto, è veloce, consente di scattare rapidamente quando vedo qualcosa che mi interessa. Quale che sia il mezzo, può succedere che io mi senta preda di un impulso, di uno stimolo indefinibile e sotterraneo. In automatico, senza pensare, inquadro e premo il pulsante. Vedo il soggetto che voglio riprendere e seguo lo stimolo, senza riuscire a definirlo. Quando riguardo la foto trovo elementi di cui non mi ero accorto scattando. Un dettaglio, una espressione, una postura. Una composizione, anche, che non avevo cercato consciamente e che invece, ora lo vedo, è funzionale alla rappresentazione di quello che sentivo al momento di scattare. Possibile che questi siano aspetti comprensibili solo a me. Oppure che io mi sia immaginato tutto.

Per viaggiare l’auto è il mezzo di trasporto migliore [se non ci sono oceani di mezzo. Ma per quelli ci vuole il cosobianco e, insomma, sapete come la penso]. Parto quando voglio partire, accelero, rallento, mi fermo, riparto, ascolto musica, canto. E guardo. Se posso evito le autostrade, monotone e infinite distese di asfalto. Sono poche quelle in cui ci sia qualcosa che valga la pena guardare. Quella che da Ivrea porta in Valle d’Aosta e fino al Monte Bianco e quindi in Francia è una di queste.

2.
Se fossi nato in Borgogna sarei morto da un pezzo. Non per il vino, non sono un bevitore ingordo. Non lo sono più da anni. E il vino qui [lì] è pure mediamente meno alcolico che altrove nonché molto più digeribile rispetto alla media dei vini che bevo abitualmente. Non essendo capace a sputare [mi sbrodolo e non è un bello spettacolo], l’alternativa durante gli assaggi è tra versare nella sputacchiera quanto resta nel calice o buttarlo giù. In Borgogna ho buttato giù praticamente tutto senza un accenno né di mal di testa né di mal di stomaco, senza mezzo fastidio intestinale. Il problema di sopravvivenza si pone quindi non con il vino, ma con lo jambon persillé, con l’époisses, con il comté, con la charcuterie, che da queste parti è epidemica. In Borgogna si mangia male? Terra di grassi animali e aglio e io non so resistere né agli uni né all’altro.

Il pane francese è eccellente. La competizione tra cibi italiani e francesi è una minchiata, le classifiche lo sono sempre, impossibile essere oggettivi. Sui formaggi, ad esempio: qui c’è il parmigiano reggiano, lì c’è il beaufort. Posso rinunciare a uno dei due? Sono scuole di pensiero diverse, la nostra e la loro. Su burro e pane invece non ho dubbi. Le nostre panetterie sono diventate luoghi di spaccio di pani mediocri quando non pessimi. Invece in Francia anche il pane dozzinale è migliore di quello italiano. Abbiamo dimenticato che, come diceva mia nonna, il pane è la base.

Nei bar à vins si mangia piuttosto male, sono rari i piatti caldi. Quand’anche i formaggi e i salumi serviti siano di qualità, non si può mangiare solo questi. E l’alternativa ai soliti taglieri invece che da verdure è spesso rappresentata da scatolette e vasetti: acciughe sotto olio, terrine variobestie preconfezionate, creme di pesce frullato spalmabili e alquanto puzzolenti. In compenso le carte dei vini sono incredibili. Se non andate da Maison du Colombier, portatevi un panino pomodoro e mozzarella da casa.

Poi però a Gevrey-Chambertin c’è Jeannette.

Il Resto Jeannette, gestito dall’omonima mitologica e dalla sua cagnetta Thelma, è un bistrot/bazar dove si può mangiare un piatto caldo fatto come a casa. Ad esempio un boeuf bourguignon. Arredamento che sa di anni ‘60 e anni ‘70, pieno di colore e calore e oggetti e foto incollate alle pareti in un felicissimo caos.

E ci sono ristoranti veri e propri che valgono la pena. A Meursault gran cena, l’ultima sera prima del ritorno, da Au Fil du Clos, chef Jean-Christophe Moutet.

Godurioso Piccione di Bresse con spugnole, carta dei vini profonda e il primo Coche-Dury della mia vita. Un rosso, Volnay 1er cru. Per darne un’idea prendo a prestito la definizione che Marco Ciriello, uno dei grandi scrittori viventi in lingua italiana, aveva dato di un regista del cinematografo: rigoroso senza essere elitario. [Il vino. Perché il prezzo, la verità, un poco elitario è].

Quindi ha senso dire che in Borgogna si mangia male? No.
Un problema di alimentazione poco salutare c’è, ma chissene. Più dei sapori contano i ricordi. Le cene migliori, quelle che non si dimenticano, dipendono da chi è con noi al tavolo. E dai gesti inattesi.

“La tavola è conviviale, la cucina è circadiana”
P.L.

La Borgogna è per me anche la terra di un’occasione perduta. Sono lento e arrivo sempre tardi, su tutto: ai tempi della pallacanèster non a caso mi chiamavano Bronto. Il fatto è che quando era possibile farlo decisi di non mettere da parte vini borgognoni e oggi comperarli è diventato impegnativo ove non impossibile. Alla stupidità mia aggiungo un poco di sfiga: tolte pochissime eccezioni piuttosto indimenticabili, la maggior parte delle bottiglie comprate a caso furono deludenti. Per spremiture di legni, mancanza di frutto, brett, rusticità, varie ed eventuali. Circolava anche la falsa credenza, diffusa da certi individui malsani, che i vini di Borgogna fossero quasi tutti anoressici scheletri di acidità. Vabbeh, la macchina del tempo non esiste, si guarda avanti, si fa quel che si può, per l’impossibile ci stiamo organizzando.
La morale della favola [della fava] è che come minimo non bisogna dare retta né al prossimo, né ai luoghi comuni. Come quello della cronica assenza di bidet negli alberghi francesi, assenza che, superando la soglia della camera assegnataci dal concierge, incombe come un temporale in arrivo mentre si è senza riparo. Uhm. A dirla giusta questo non è un luogo comune: è un fatto, i bidet non ci sono davvero.
Divago. In questi anni leggendo le cronache di appassionati bevitori entusiasti dei vini borgognoni, gente che venderebbe la madre a una popolazione nomade a caso del vasto Nord-Africa in cambio di una bottiglia di Clos de Tart [ma solo se di annata consona], sono stato colto dal leggerissimo sospetto di essermi messo in una prospettiva sbagliata. Nella mia ignoranza indotta mi chiedevo cosa trovassero costoro di tanto straordinario nel pinot noir. Non sarà, mi dicevo, una moda? Sulla Borgogna ho letto molto. Ma. Finché non si sperimenta qualcosa di persona, e vale per il vino come per tutto [ostriche, parapendio, bdsm, etc], non è possibile capire nulla, nel bene oppure nel male.

3.
La Borgogna è una sorpresa. Ci ero passato in mezzo anni fa, attraversandola per andare a nord. Ma era una giornata di cielo terso, non mi ero fermato che un paio d’ore per pranzo e qualche acquisto, e non avevo capito niente. Questa volta è andata diversamente perché ho avuto tempo. Adesso sto provando a capire cosa io abbia sentito di speciale. Quindi scrivo. Ci metto un po’, l’ho detto all’inizio.

Intanto c’è il cielo. Il cielo, così basso che non puoi evitare di pensare che da un momento all’altro potrebbe caderti sulla testa. Eppure non fa paura. Lo vedo bene, questo cielo, anche grazie alla coltre di nuvole invernali, anch’esse basse, e scure e cariche di pioggia, che lo sostengono, trattenendolo dal venire giù. Le nuvole fanno da tetto, filtrano la luce di un sole nascosto e la restituiscono a terra, cambiata e cangiante. Forniscono la consapevolezza, la certezza, la misura di questo cielo. Per un fotografo è come stare in uno sconfinato studio fotografico naturale, al chiuso essendo all’aperto. Tutto si gioca nel rapporto tra le nuvole/tetto e la terra/pavimento. È la forma della campagna, con il cielo che sembra rispondere alla terra, semipianeggiante per la gran parte. Bassa.

Basse anche le viti, in vigneti con impianti fitti, con i cavalli che passano tra filari stretti, impraticabili per i trattori, e potatori impegnati a bruciare i sarmenti in vigna, come previsto da tradizione e legge. Mai visto viti così basse, mai visto cielo così basso. Tutto sembra a portata di mano. Là dietro, sullo sfondo, ci sono anche le montagne, è vero, e sarebbero in realtà colline, come la montagna di Corton [il “panettone”] che emerge dalla pianura. Eppure tutto sembra compresso, dall’alto in basso, lasciato scivolare sul fondo, allungato, disteso. È una compressione che non fa mancare il respiro. Non opprime. Infonde invece un senso di protezione. Protezione dal mondo esterno. Come se là fuori ci fossero i leoni o gli animali sinistri. Protezione da sé stessi. Quando i leoni sono dentro di noi. I colori fanno la loro parte, e i grigi, gli azzurri, i verdi sono la migliore combinazione cromatica possibile per richiedere, e ottenere, pace.

4.
Il viaggio è stato veloce. Cinque o sei ore volano se ci sono musica buona e chiacchiere. All’arrivo l’albergo è più bello del previsto. È pulito [sembra ovvio, non lo è], la camera è spaziosa, arredata con gusto, il letto è comodo, i dintorni sono silenziosi e siamo a dieci minuti a piedi dal centro. I gerenti, termine che traduco alla lettera non sapendo dire che corrispettivo abbia in italiano [né voglio controllare] e che mi piace molto, hanno una gentilezza sorridente e laterale, discreta.
La cosa che mi colpisce degli alberghi francesi è il bagno. Non per il bidet, di quello ho detto prima. Il bagno è composto da due locali. In uno ci sono lavabo e doccia, nel secondo c’è la tazza di ceramica bianca, quella che quotidianamente imbrattiamo della nostra essenza [la rothiana macchia umana è un’altra cosa]: uno stanzino stretto, senza finestre, quasi punitivo. Se si è in due questa soluzione abitativa può essere comoda perché si possono usare contemporaneamente i due locali. Invece a me viene da pensare che in Francia il senso sia diverso: dove ci si lava non si caga. E viceversa. Forse è questo il motivo per il quale in nessuno dei due locali c’è un bidet: per non creare confusione. [Non è vero, il motivo è un altro].
Gli indigeni, ad eccezione di un certo commesso di gastronomia, sembrano simpatici. Può pure essere che in realtà non lo siano, non ne ho incontrati che pochi e per poco tempo. Però tutti erano gentili, sorridenti. [Salutavano sempre]. Lo stereotipo del francese lo vuole stronzo ma so che lo stronzismo non ha nazionalità. Nel nord o anche nel Perigord, per esempio, ho trovato gente affabile e cortese. Gli stronzi più che altro li ho visti a Parigi e in Provenza.

5.
La lingua è un problema. Non avendo mai voluto studiare francese [va bene, avevate ragione], comincio a capirlo discretamente a partire dal terzo giorno di permanenza in loco. Qualche concetto, ahimè, è andato perduto, la sostanza spero di no.

Da qui in avanti qualche appunto sui vini. Poca roba, descrizioni buttate giù sul momento con qualche considerazione elaborata successivamente. Chi non avesse voglia di leggere ha tutta la mia comprensione.

DOMAINE DE L’ARLOT

Assaggiamo campioni dell’annata 2021 presi dalle botti, annata che come avremo modo di sperimentare, qui e altrove, ha dato vini più dinamici e meno concentrati rispetto alla 2020. Qualcuno ancora un po’ sbirulino, la verità.

Antico Domaine, è di proprietà di un gruppo assicurativo francese dalla fine degli anni ‘80. Hanno vigneti sia a Nuits Saint Georges che a Vosne Romanée. Nella degustazione, dopo essersi fatta brevemente aspettare, ci segue Geraldine Godot che è l’enologa del Domaine da quasi un decennio.

– CLOS DU CHAPEAU 2021, R.
Caratterizzato da una acidità vibrante e già ben indirizzata. Nitido il frutto.

– NUITS SAINT GEORGES CLOS DE L’ARLOT 1ER 2021, R.
Maggiore concentrazione rispetto al vino precedente, con il legno che si fa ancora sentire, ma anche con un portamento più elegante delineato da note floreali.

– VOSNE-ROMANEE LES SUCHOTS 1ER 2021, R.
Qui il corredo aromatico vira sulla frutta rossa matura. Il sorso è vellutato, con un tannino che si è già integrato nella massa e che rimanda all’uva e non alla sosta in legno. Si può dire sensuale? Ecco.

– NUITS SAINT GEORGES CLOS DES FORETS SAINT GEORGES 1ER 2021, R.
Sensazioni che mi ricordano il Clos du Chapeau, con l’acidità a dare il ritmo della bevuta. Qui si aggiunge una speziatura marcata. Sono i due vini che mi sembrano più in ritardo nell’integrazione delle componenti. Fatico a farmene un’opinione precisa, ne riconosco la potenzialità intrinseca.

– ROMANEE SAINT-VIVANT GC 2021, R.
Rosa, arancia, fragola di bosco. Profumi dichiarati, senza clamore ma percepibili con precisione. Lieve timbro del legno che non intacca la complessiva armonia. Finale sapido. Gran bel vino.

DOMAINE PERROT-MINOT

Christophe Perrot-Minot è un bell’uomo sui cinquanta, alto, in forma, con occhiali [astigmatico?] e fluenti capelli bianchi screziati di biondo. Ci porta nella sala degustazione sotterranea. Un lungo tavolo di legno, il soffitto ricoperto con le assi delle barrique, tante bottiglie negli scaffali sulle pareti. Ha una “visione intellettuale” del suo lavoro di vignaiolo e dimostra una attenzione profonda al terroir. La dichiara a parole e la conferma con i vini. Ci parla dell’annata 2021, secondo lui più fragile della precedente perché meno equilibrata. Ci sono meno polifenoli nell’uva a proteggere i mosti dall’ossigeno. Saranno perciò vini più diretti ma delicati ed è stata necessaria molta attenzione in vinificazione. Ci racconta dell’annata 2020, calda e siccitosa. C’era il rischio di ottenere vini troppo concentrati e pesanti. Ottenere un’estrazione equilibrata ha comportato un gran lavoro prima nella selezione delle uve e poi in vinificazione. I mosti venivano assaggiati di continuo anche durante i numerosi batonnage. “Bevendo i 2020, così pieni e riccamente estratti, provate a immaginare i 2021, che sono il loro opposto”.

La modalità di vendemmia è totalmente manuale e prevede l’eliminazione in vigna dei soli marciumi, per non contaminare le ceste con le muffe. La selezione vera e propria viene effettuata in cantina sui tavoli di cernita personalmente da Christophe. Il 50% delle uve è vinificato a grappolo intero e per l’invecchiamento si fa ricorso a legni nuovi per circa il 20% dei vini. Dopo la malolattica non si fanno più travasi.
I prezzi sono alti, la rispondenza alle denominazioni è precisa, la qualità è altissima. Christophe ci parla delle basse rese, di importanti quantitativi di uva scartati ogni anno. E se si buttasse via meno uva? Si potrebbero produrre più bottiglie vendendole a prezzi più accessibili. No, l’obiettivo è fare vini buoni, al massimo possibile, vini che devono durare [e cambiare] nel tempo. Vini che devono piacere, prima di tutto, a Christophe stesso.

– MOREY SAINT DENIS LA RUE DE VERGY 2020, R
Al naso ancora non del tutto espressivo, un po’ ritroso. Fresco, snello al sorso e di intensa mineralità.

– GEVREY-CHAMBERTIN JUSTICE DES SEUVREES 2020, R
Più aperto del precedente, più immediato, anche più intenso. I primi due vini sono village molto buoni e già molto godibili.

– CHAMBOLLE-MUSIGNY ORVEAUX DES BUSSIERES VV 2020, R
Unisce la mineralità e la finezza del MSD alla forza delllo GC. Un village che si comporta da premier cru. Non che i primi due vini siano stati tanto da meno.

– MOREY SAINT DENIS LA RIOTTE VV 1ER 2020, R
Profumi intensi e penetranti, tannino presente e maturo. Si caratterizza per un’elegante spina dorsale acida che lo sostiene e ne definisce la direzione.

– CHARMES-CHAMBERTIN GC 2020, R
Minerale, leggiadro, appena segnato dal legno. Da attendere.

– MAZOYERES-CHAMBERTIN GC 2020, R
Ritrovo tutte le caratteristiche che più mi sono piaciute, singolarmente, nei vini precedenti, ognuna al suo massimo, nitida. Vino della degustazione e, per me, del viaggio.

– LA RICHEMONE Vignes Centenaires 2016, R
Un cru di Nuits Saint Georges, una vigna piantata nel 1902. Vino muscoloso, ancora contratto nella sua forza, giovanissimo.

Alla cieca nessuno dei 2020 mi farebbe pensare a un’annata calda. Per quanto giovani, sono vini precisi, estratti con cognizione e senza traccia di costruzione [pensiero cretino mentre bevevo: sto sperimentando, naso e palato, l’essenza dell’uva vendemmiata in quel preciso giorno, trasfigurata e resa a me comprensibile. Decisamente cretino, ne convengo], vini di forza e agilità insieme, tanto profondi da farmi uscire da quella cantina rimbambito e pure tanticchia euforico*.
A livello soggettivo c’è la sensazione di essermi imbattuto in qualcosa che in qualche modo stavo aspettando. Mi riferisco ai pinot neri di Borgogna [no varietale: il varietale diventa assolutamente secondario]. La stessa sensazione provata quando ascoltai per la prima volta Ok Computer dei Radiohead. Era la musica che mi mancava da tutta la vita senza che ne fossi conscio e finalmente qualcuno l’aveva scritta e suonata.
A un livello meno personale, di Perrot-Minot mi colpisce la fedeltà nell’interpretazione delle diverse denominazioni [per quanto possa capirne io che son novizio], ma con uno stile riconoscibile e personale che le tiene tutte saldamente insieme. Intanto che scavo nella memoria per cercare una degustazione di rossi giovani di questo livello complessivo, avverto me stesso: una degustazione in cantina non è la verità. I vini vanno aspettati, seguiti nel tempo, riassaggiati, ragionati. E tuttavia.

*[Qualche giorno fa ho letto su FB un post di un contatto che non conosco di persona ma che leggo spesso (scrive molto bene). Raccontava di una orizzontale dei vini del domaine, annata 2019. Mi ha confortato il riscontro: le osservazioni fatte da lui mi sembrano descrivere la stessa mano dell’ homo faber che ho sentito io. Nelle descrizioni ho qui omesso un aggettivo (carnale) che stava nei miei appunti perché lo avevo ritrovato in quel post. Ovvio, il conforto mi dice solo che per una volta potrei averci capito qualcosa].

DOMAINE PONSOT

La visita alla barricaia con gli assaggi dalle botti lascia qualche dubbio sull’evoluzione futura dei 2021 del Domaine, facendo pensare a quella fragilità di cui si diceva prima. Ma, si sa, le cose cambiano anche piuttosto in fretta tra la botte e la bottiglia.

CHAPELLE CHAMBERTIN GC 2017, R
Arancia, lampone, fragola. Un’annata classica da queste parti e il vino lo conferma, in equilibrio tra verticalità e polpa. Molto buono.

– GRIOTTE CHAMBERTIN GC 2014, R
Profuma di rosa. Più verticale e meno potente del precedente, sposa tannicità e freschezza sapida.

– CLOS DE LA ROCHE GC VV 2018, R
Caldo sia nei profumi che in bocca. Ha buona freschezza ma tannino ancora invadente e forse qualche nota vegetale di troppo.

– CLOS DE LA ROCHE GC VV 2007, R
Naso elegante, proprio bello. Bocca lievemente fuori fuoco causa acidità ma tenuta comunque in adeguata riga da un tannino maturo. Mi è piaciuto.

– GRIOTTE CHAMBERTIN GC 2006, R
Anche qui l’integrazione dell’acidità nella massa non sembra perfetta. Un’acidità indomita, che salta fuori all’improvviso e che mi pare una costante in molti vini del Domaine. Sembra figlia di quella che percepivo negli assaggi da botte, lì però molto più evidente [e graziarca’]. Non lo chiamerei difetto, sembra invece quasi un marchio di fabbrica, di stile: la scalpitanza.

– MOREY ST. DENIS CLOS DES MONTS LUISANTS 1ER VV 2018, B
Unico 1er cru di Borgogna con uve aligotè e tra i rari bianchi in Cote de Nuits. Agrumato, mieloso e minerale, ha materia e freschezza e al di là di qualche perdonabile sbandamento gustativo si beve con voluttà.

PETIT ROY

Piccolo produttore naturale, assaggi veloci in piedi in una cantina minuscola. Nessun appunto preso, resta un ricordo di vini anche buoni, con qualche immancabile difetto, non trascendentali. Non metto foto perché attaccata al vignaiolo/padre a mò di cozza c’era sua figlia, una bambina, e non pubblico foto di bambini.
Il vino che mi è piaciuto di più è un’anomalia [in senso buono]: uve altesse dalla Savoia che lui vinifica in Borgogna. Ohibò.

CONFURON-COTETIDOT

Ci sono persone che ti piacciono dal primo incontro. E ci sono situazioni che ti colpiscono, inattese e impreviste e che a raccontarle è facile essere banali e pure noiosi. Per cui non vi racconterò di come una cantina caotica, polverosa e buia possa contenere la luce del bello [“Ma è di un bello, il brutto!”], né di quanto possa essere buono[issimo] uno spezzatino di montone con patate, e ho esagerato, lo so da me.

Gli assaggi da botte della 2021 confermano l’idea di una annata scalpitante per i rossi [almeno qui, almeno in questo momento dell’affinamento. Ho detto scalpitante: fragile no, per nulla], i vini bevuti a tavola parlano invece di invecchiamenti felici.

A tavola, poi, non si prendono appunti. Al massimo si scatta qualche fotografia.

MICHEL BOUZEREAU ET FILS

Una dozzina di ettari di proprietà tra Meursault e Puligny, quasi tutti piantati con uve bianche. Tutti i vini fanno affinamento in legno, in barrique di vario passaggio, e vanno in bottiglia a inizio del secondo anno dalla vendemmia. Assaggiamo i campioni dell’annata 2021, pochissimo produttiva causa gelate: ci sarà circa il 30% delle bottiglie rispetto al solito. Non oso immaginare cosa succederà ai prezzi. Se mi limito a questo produttore l’impressione è che per i bianchi la 2021 possa essere annata molto felice. Filo conduttore di tutti i vini è una espressiva mineralità. Jean-Baptiste Bouzereau è un bianchista che si cimenta anche nei rossi con risultati eccellenti. È difficile che un bravo rossista sia ugualmente bravo nel fare vini bianchi, mentre è più frequente incontrare bianchisti che riversano la loro sensibilità in rossi luminosi.

– BOURGOGNE 2021, B
Appelation regionale di qualità decisamente alta. Mineralità e precisione.

– BOURGOGNE CLOS DU MOULIN 2021, B
Ancora più definito del precedente, maggiore l’eleganza, bene integrata la mineralità.

– MEURSAULT LES GRANDS CHARRONS 2021, B
Si sale di livello, con un classico della denominazione, più complesso dei precedenti, dinamico e agrumato.

– MEURSAULT LE LIMOZIN 2021, B
Finora quello con più ciccia. Il legno si sente ancora, restano i marchi di fabbrica di Bouzereau: mineralità e definizione. Finale salato e piccante.

– MEURSAULT LE TESSON 2021, B
Alle solite caratteristiche, che non ripeto, si aggiunge una notevole finezza di trama. In bocca scivola felicemente, non senza frizione, ma è una frizione lieve e rigenerante. È un village ma, mi dice Camillo, è considerato molto di più. A ragione.

– PULIGNY-MONTRACHET LES CHAMPS GAINS 1ER 2021, B
Si avvertono meglio le note grasse dello chardonnay, che non ne frenano tuttavia l’agile movimento al sorso.

– MEURSAULT CHARMES 1ER 2021, B
Charmes è il più grande vigneto premier cru di Mersault. La parte superiore, da cui deriva questo vino, è su terreno calcareo. Ed è il calcare che tiene a bada la grassezza, la misura con la mineralità, conferisce eleganza e porta a concludere con un equilibrato finale ricco di sale. Gran bel vino.

– MEURSAULT LES GENEVRIERES 1ER 2021, B
Il meno immediato della batteria è probabilmente anche il migliore. Comunque è quello che ho preferito, più sussurrato nei profumi, più complesso nelle sue sfaccettature. Una lampadina che si accende piano piano.

– MEURSAULT PERRIERES 1ER 2021, B
Materico, ancora un po’ ingessato, poco concessivo. Ma che gli vuoi dire? Sembra contenere tutto quanto si può desiderare. Lo metti in cantina, aspetti e taci.

– PULIGNY-MONTRACHET LE CAILLERET 1ER 2021, B
Di nuovo grassezza, ma che non frena l’eleganza e con bocca dinamica, slanciata.

– BOURGOGNE 2021, R
I rossi sono in bottiglia da metà dicembre. Delicato nei profumi e al sorso, un vino compiuto.

– POMMARD LES CRAS 2021, R
Potente come ci si aspetta da Pommard, ma anche molto fine.

– VOLNAY LES AUSSY 1ER 2021, R
E questo invece è il Volnay di cui si legge: gentile, con l’eleganza del pinot nero. Profumi netti di fragola e antranilato di metile.

– BEAUNE LES VIGNES FRANCHES 1ER 2021, R
Naso con note terragne, di cioccolato al latte e altre indecifrabili [parlo della mia calligrafia: non capisco cosa ho scritto]. Però molto buono davvero.

6.
Tra gli altri vini bevuti in questi pochi giorni, con un paio di intrusi: un appagante Bourgogne Chardonnay 2020 di Francois Mikulski [a Beaune un locale fichissimo, stancati dal viaggio, svaccati su un divano di fronte al camino], un buonissimo Champagne Roses de Jeanne Cote de Val Vilaine sboccatura 2013, Les Retraits 2017 di Jerome Galeyrand [Cote de Nuits Village che se ne frega della gerarchia delle denominazioni e pure in annata felice], Domaine de Trevallon Les Baux 1990 [vino mitico provenzale che non avevo mai assaggiato. Trattato malissimo dagli incoscienti gestori del locale che lo aveva in carta e filtrato a dovere da Alessandro, subito mi ha lasciato perplesso. Chiuso al naso, con la bocca svogliata più che stanca, leggermente polverosa al centro. Con lentezza si è aperto un po’, poi un altro po’, quindi ancora. All’ultimo sorso ho intravisto quello che subito non avevo capito: sono proprio lento], un Bourgogne Blanc 2017 di Roulot [Bourgogne è la denominazione regionale. Da noi c’è la DOC Piemonte, in Borgogna può capitare che sia Roulot] e persino un felice Erbaluce Le Chiusure 2013 di Favaro.

E poi siamo tornati. Al mattino colazione e via, con un misto di malinconia e gratitudine che è la norma in questi casi.
La mia saggia nonna, che non cessa di guidarmi, diceva: se non si va non si vede. Leggendo di cose di Borgogna mi sentivo distante, né coinvolto né affascinato. Curioso sì, quello sempre.
Qui si viene per il vino e si trova altro, molto altro. Andare in Borgogna, sia pure per pochi giorni, mi ha fatto vedere quello che non riuscivo a immaginare. Un’idea diversa di vino e di luoghi e anche un’idea diversa di me stesso. Se dopo settimane continuo a macinare pensieri è perché qualcosa è scattato [cambiato]. Sì, ci sono luoghi che mi piacciono da subito. E così anche certe persone.

“[i viaggi] migliori non sono quelli più pieni ma quelli che ti lasciano qualcosa, anche con le pause necessarie per fare ordine tra i pensieri. Quelli che ti cambiano dandoti il tempo di capirlo.”
P.C.

7.
“Poiché non sappiamo quando moriremo si è portati a credere che la vita sia un pozzo inesauribile, però tutto accade solo un certo numero di volte, un numero minimo di volte. Quante volte vi ricorderete di un certo pomeriggio della vostra infanzia, un pomeriggio che è così profondamente parte di voi che senza neanche riuscireste a concepire la vostra vita? Forse altre quattro o cinque volte, forse nemmeno. Quante altre volte guarderete levarsi la luna? Forse venti. Eppure tutto sembra senza limite.”
P.B.

[Pensieri seminati tra il 2 e il 5 febbraio 2023 e successivamente germogliati. Se non gela magari fioriscono. A chi c’era durante la semina dico: grazie]

[Sì, ma adesso cosa bevo?]

Amsterdamned

Il 21 maggio dell’anno 2022 sul cosobianco partito da Malpensa in direzione Schipol c’è una schiacciante maggioranza di passeggeri di sesso maschile. Dal momento che Schipol è il cosobiancoporto di Amsterdam e visti i continui schiamazzi giubilanti di questi gentiluomini, è chiaro che il loro obiettivo non può essere che quello di rimirare da presso la ricca collezione di dipinti del maestro Vincenzo Van Gogh.

I sedili del cosobianco Easyjet sul quale ci troviamo sono perfetti e spaziosi, in lunghezza e altezza e larghezza, ideali per un viaggio confortevole se hai meno di sei anni. Viceversa gli ultra-seienni e i diversamente bassi avranno difficoltà a disincastrarsi quando sarà il momento di scendere dal cosobianco.

Sorvoliamo l’Olanda. Vista dall’alto è una distesa di prati e campi e piccoli agglomerati urbani dove tutto è ordinato, tutto è delimitato, tutto è geometricamente disegnato. I corsi d’acqua seguono curve disciplinate e persino le nuvole, bianche pecorelle lanose disposte su quinte, disegnano il cielo e la direzione del vento.

Gli olandesi sono molto alti. Non tutti, ma molti sono molto alti. Anche le olandesi sono molto alte. Non tutte, ma molte sono molto alte. Quelle molto alte, specialmente se hanno superato i quaranta, talvolta portano sul volto un’espressione che fa venire in mente il nazismo. Ma un nazismo dal volto umano: il nazismo della sculacciata.

Siamo inspiegabilmente convinti che il caffè buono si possa bere solo in Italia. Invece la maggiorparte dei bar in Italia servono caffè che gridano vendetta di fronte al tribunale di Odino. Ad Amsterdam invece il caffè è molto buono quasi ovunque. Il migliore tra quelli provati [fruttato, acido come piace a me, lunghissimo nel sapore che ritorna a distanza di minuti] lo prepara Brandmeester’s in Van Baerlestraat al numero 13 [zona musei]. Lo stesso dicasi del loro cappuccino.

Non abbiamo visitato chiese. Nelle chiese protestanti non ci sono quadri, sono spoglie come si confa a una vita di lavoro e meditazione spirituale. Dio e Pil.

Il Begijnhof, beghinaggio, è un ampio cortile nel centro della città intorno al quale sorgono diverse abitazioni. Possono essere prese in affitto da persone bisognose, principalmente donne, a canoni molto contenuti. Fondato nel 1574 da alcune beghine, donne che si predevano cura del prossimo, è un’oasi di serenità in una città comunque piuttosto silenziosa per la scarsità di mezzi di circolazione provvisti di motore. Una parte del beghinaggio è accessibile ai visitatori, l’altra solo ai residenti.

Sempre in centro, sulla facciata di un fumettistico centro sociale, c’è un fichissimo gatto incazzato.

E questa è la visione d’insieme:

I ciclisti sono la piaga della città. La bici è il mezzo di locomozione di gran lunga più utilizzato e così ci sono più ciclabili che marciapiedi. Le biciclette hanno la precedenza sempre. Anche di fronte alle strisce pedonali, che qui indicano al pedone qual è l’unico punto dove può attraversare SE non ci sono ciclisti in transito. La spiegazione di questa regola da malati è che molte biciclette in Olanda hanno il freno a pedale e non sul manubrio. La frenata è più lunga e se stai andando veloce potresti non riuscire a frenare in tempo. E così gli amsterdamned hanno deciso di normare la legge del più forte [del più veloce, del più stronzo].

Per non farsi mancare nulla, sulle ciclabili [che si intersecano e sono veramente ovunque] possono circolare anche gli scooter.

Pochissimi scooteristi hanno il casco, nessun ciclista lo porta.


Questo invece è uno scorcio dell’Opera, Het Muziektheater.

Il mercato dei fiori sorge su un canale ed è parzialmente retto da palafitte. Ci si trovano ovviamente bulbi di tulipani ma anche tante altre piante e fiori. Un po’ un ciapa-ciapa botanico però, trattandosi di fiori , è bello. Ovviamente ho dimenticato di fotografarlo.

Come tutti sanno i Paesi Bassi si chiamano così perché una parte del loro territorio si trova sotto il livello del mare. Grazie alle dighe e alla rete di canali qui si svilupparono le attività commerciali che tanta ricchezza hanno portato in questa landa. Amsterdam significa infatti diga sul fiume Amstel.

Il sabato e la domenica gli amsterdamned se ne vanno in barca tra i canali a fare festa, a bere birra e vino di dubbia qualità, a mangiare.

Homo sapiens non urinat in ventum. È la scritta su un colonnato che divide la strada da una specie di centro commerciale. Non è chiaro con chi ce l’avesse chi la ha messa lì sopra, ma è un buon motto.

Tutta la città è profumata, profumatissima. Quando c’è il sole si avverte ovunque un odore buono che fa sentire allegri e ben disposti verso il prossimo. Come un profumo di fratellanza, di volemose bene. Chissà come fanno.

Il blue di Delft che tanto successo ha avuto e ha nel mondo non è altro che la scopiazzatura del blu degli antichi vasi e tappeti cinesi che gli amsterdamned commerciavano tra oriente e occidente. Quando ve la prendete con i cinesi che copiano tutto, pensate a chi ha cominciato.

A parte carne e patate, la dieta degli olandesi resta per me misteriosa. Cioè, non capisco come facciano ad andare di corpo con regolarità con così poche fibre. Le bitterballen, palle amare, sono polpettine rotonde di carni varie, ovviamente impanate e fritte, che si mangiano con senape o anche lisce e una tira l’altra. Molto diffuse anche le costine di maiale, con salse varie in accompagnamento. E c’è un piatto davvero gourmet che si chiama stamppot: una base di patate schiacciate miste a poche verdure e con sopra carne [wurstel, costine, quello che preferite]. Una dieta sana ed equilibrata.

Va detto che la carne in Olanda è buona.

Altri cibi piuttosto famosi sono il panino [broodje] con aringa, cipolle e cetriolo [buono ma pur sempre cibo da strada] e quello con crocchè fritta di patate e carne che si mangia da Van Dobben, in Korte Reguliersdwarsstraat 5-7-9, dietro piazza Rembrandt. Qui, la verità, ho preferito il panino col fegato [quello in alto a destra].

Da assaggiare le patate fritte che vendono in cartocci [da Vleminckx, in Voetboogstraat 33]. Ci metti sopra senape o maionese o altre salse che paghi a parte e ti sporcacci tutte le dita.

Come in ogni città europea che si rispetti anche qui c’è un mercato metropolitano dove si mangia. Va senza dire che è più piccolo ma pure più meglio nonché più vario di quello che c’è nella città nella quale vivo e che non vi nomino per evitare inutili e stantìe polemiche con chi non si è accorto di avere dimenticato occhi [e talvolta anche naso e bocca] sul comodino, uscendo di casa stamattina .

Ad Amsterdam sanno fare il pane. Cosa che ho sperimentato anche in Francia. In Italia invece abbiamo disimparato. E sono buoni pure i dolci lievitati.

Tra quelli poco o non lievitati cito la torta di mele, che trovi ovunque: pasta frolla a contenere pezzettoni di mela con cannella. Sopra c’è l’inutile e immancabile panna, ma li perdono.

Birra ne abbiamo?

Tutto è ordinato, tutto è pulito. Come è tradizione di ogni Paese a privilegio fiscale. A maggior ragione quando già ti sei fatto i soldi veri negli ultimi quattrocento anni, prima come corsaro e poi con le cosiddette colonie [non quelle delle vacanze estive]. Sono sicurissimo che qualcuno abbia una spiegazione convincente del fatto che l’Olanda, con la sua legislazione fiscale, faccia parte dell’UE. Io non ce l’ho.

Le case di mattoni sono la maggioranza e pendono in avanti. Molte sono originali del XVII secolo, quando l’Olanda diventò una potenza commerciale. Molte altre, di epoche successive, ne riprendono le linee. A livello del tetto si nota una trave centrale con un grosso gancio. Dal momento che si tratta di case costruite su più piani, con scale strettissime nonché ripidissime per salire e scendere, il gancio serve per i traslochi: la pendenza in avanti delle facciate evita che i mobili trasportati lungo di esse ci sbattano contro salendo [scendendo].

Non solo in avanti, le case pendono in varie direzioni, pure di lato. Amsterdam è costruita sulla sabbia e in questi giorni di lavori stradali la cosa si vede bene grazie agli scavi.

Per questo motivo non tutto è stabile. Il Comune monitora periodicamente le case storte e se lo ritiene obbliga i proprietari al restauro.

Le più storte sono le cosiddette Case Ballerine.


Più che ballare a me sembrano saltellare.

Le houseboot [o houseboat, non ho capito come si scrive] sono numerose. Ancorate ai lati dei canali sono vere e proprie case galleggianti, allacciate alla linea elettrica e abitate/affittate ai turisti. Stesso discorso che per le case storte: il Comune le controlla e se stabilisce che siano da riparare le fa rimorchiare e rimettere a posto. Anche qui a spese dei proprietari.

Il gusto per l’abbigliamento in Olanda è riprovevole. Non ho altro da dire.

I coffee shop sono quei locali dove entri sperando di berti un caffè e invece vendono la droga, perbacco. In pratiche confezioni che contengono spinelli già pronti come fossero caramelle.
Capita anche di vedere tranquilli cittadini di ogni età intenti a rollarsi dei gran cannoni mentre si godono il fresco della sera seduti su una panchina. Poi però leggi cartelli con strani divieti.


[Il divieto strano è quello a destra. Immagino serva a evitare gli inconvenienti dati da quello a sinistra].

Il Nemo è la sede del museo della scienza. Opera di Renzone Piano, è un edificio verde che imita nelle forme una nave pronta a salpare [“O frati, fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”]. Vi si accede da poppa per mezzo di una lunga scalinata in fondo alla quale, sul ponte di coperta, ci sono numerose attrazioni per bambini: fontane da azionare con le braccia, mulini per generare energia dal vento, etc.

All’interno si può godere di una bella caffetteria moderna con cibo buono, dichiaratamente sano e ovviamente non economico. Il cibo costa come negli autogrill italiani ma è parecchio migliore.

Ad Amsterdam si va anche per l’arte. E di musei ce ne sono diversi. Ne abbiamo visitati tre e andiamo a dire come è andata.

Il museo Van Gogh è la sede della omonima fondazione. Contiene circa un terzo di tutti i dipinti che Vincenzo realizzò nella sua breve e infelice vita, oltre ad alcune opere di suoi contemporanei [vi piace Odilon Redon? Dite sì, grazie]. Cosa che non sapevo: per un breve periodo Gauguin accettò l’ospitalità di Van Gogh, probabilmente perché era persino più povero di quest’ultimo. Grazie ai quadri esposti si possono confrontare le prospettive dei due pittori. Gauguin è pittore della memoria, dipinge cose che ricorda di avere visto e che nel ricordo si trasfigurano. Van Gogh dipinge invece quello che vede ogni giorno, il presente: le persone della sua quotidianità, la sua stanza, gli ulivi, le radici degli alberi vicino casa [queste stanno nell’ultimo suo quadro, dipinto la mattina del giorno in cui si sparò al petto].

La guida [prendete le guide quando visitate i musei, almeno per un’ora: sono soldi spesi bene] raccontava la vita di Van Gogh e la sua arte con la passione che le tracimava da bocca e occhi.
Mi ha colpito il confronto tra due ritratti, quello di Paolone a Vincenzo e quello di Vincenzo a Paolone. Il primo è una tela piuttosto grande che rappresenta Van Gogh nell’atto di dipingere i girasoli. È stravaccato su una sedia, assorto, ed è brutto. Lui, non il quadro. Van Gogh è raffigurato come un matto, con le labbra sporgenti, il naso schiacciato, la faccia lunga e smunta, la barba rossa, la fronte ampia. Sembra stanco.

Scambiando i ruoli di pittore e modello c’è poi una piccola, minuscola, tela, con Paolone visto di spalle, inquadrato di tre quarti. Di Gauguin, con un cappello rosso da pittore in testa, si riconosce solo il naso. Forse sta dipingendo ma le braccia sono fuori campo: è qui, se ne sta andando.

Una visita al museo che è anche un percorso nella psiche di Vincenzo. Palese il disperato bisogno di accettazione di Van Gogh, la furia e l’ira per l’essere rifiutato [per non essere compreso] e la rassegnazione che immagino lo portò prima ad isolarsi, poi a farsi [volontariamente] rinchiudere in manicomio, infine a uccidersi.

Nell’ultima sala una tela: rami di mandorlo su fondo azzurro. Gusto giapponese per mettere in pittura un momento felice. Van Gogh lo dipinse quando ricevette la notizia, era ancora in manicomio, della nascita del nipote. Il figlio di suo fratello Theo.

Theo è il fratello amatissimo, colui che lo sosteneva e gli spediva soldi per sopravvivere. Ci sono due foto, nei pannelli che riassumono la vita di Van Gogh: una di Theo e l’altra di Vincenzo. Unica sua fotografia di cui disponiamo. È senza barba, con i capelli arruffati, le labbra carnose e il naso a patata. Theo invece è un borghese della sua epoca, con i baffi e il naso affilato del padre di entrambi. Non mi risulta che Van Gogh abbia mai ritratto suo fratello. Se invece penso a quelle due fotografie, nei molti autoritratti su tela vedo invece una confusione di tratti somatici. Sembrano quasi ritratti di un Theo con la barba rossa, come se Vincenzo volesse confondersi con il fratello, sentirlo parte di sé, essere un tutt’uno con lui. L’unico ritratto di Van Gogh che somiglia alla sua unica foto è quello che gli fece Gauguin. In questa cosa ho visto un dolore invincibile.


[Diceva mia nonna: “Ognuno sta solo sul cuor della terra trafitto da un raggio di sole: Ed è subito sera”]

Al di là della qualità delle opere contenute, il museo Van Gogh è un modello. Di come si deve allestire un museo e di come si dovrebbero allestire le mostre. La disposizione dei quadri per piani e stanze assume un significato che spiega il senso dell’opera di Van Gogh in parallelo al suo percorso di vita, raccontando per tematiche, periodi, mutamenti di stile e direzione. Per me non è perdibile anche per chi non ama Van Gogh.
[Per inciso: in questo museo trovate uno dei cinque girasoli che dipinse. Probabilmente il più bello]

Spostandoci in avanti di anni nel tempo, e di poche decine di metri nello spazio, ecco Lo Stedelijk, il museo di arte moderna e contemporanea. La struttura che contiene ingresso, biglietteria e negozio sembra un’astronave, è bella, proiettata nel futuro. Ed è adesa a un altro edificio di qualche secolo prima [‘800, a occhio], ad affermare la continuità dell’arte nel tempo.


Fuori.

Dentro.

Dentro e fuori.

Il museo ospita opere varie di artisti di categoria, magari non le loro più importanti ma che vale la pena vedere. Un Picasso, un Van Gogh granbello, un paio di Chagall, tanto Appel.

Ad esempio c’è questa, che mi piace moltissimo [moltissimo], di Pietro Mondrian

C’è anche molto [troppo] Malevic con il suo palloso Suprematismo. Ma anche un poco di Marlene Dumas.


Con i suoi cazzi.

C’è anche un angelo con uno spingitore di porco.

E questo bel ritratto punk di Albertone Giacometti, scatto di non mi ricordo chi.

Il fulcro del museo sembra però essere la sua attenzione alle installazioni e ai video di autori contemporanei.

Belli, per carità, ma io sono anziano e dopo poco mi addormento.


[Qui sognavo].

Sotto, le pagine di un’agenda settimanale sulla quale l’artista [Walid Raad] ha disegnato le diverse tipologie di bombe utilizzate durante la guerra in Libano, partendo dai diari scritti da suo padre, che le aveva descritte dettagliatamente.

Metto per ultimo il Rijksmuseum perché è il peggiore. Però nella corte c’è questa illuminazione molto fica:

Non mi convince architettonicamente, nonostante l’impatto visivo della sua facciata, lo scenografico tunnel e la sua collocazione in fondo a un grande parco. Ed è pure povero di opere per me [per me] interessanti.
Qui c’è Vermeer e c’è Rembrandt. Del primo ci sono quattro quadri, di cui uno non esposto, e vederli stravale in ogni caso il biglietto. Di Rembrandt c’è l’opera forse più famosa, La Ronda di Notte, e va bene [aridaje] la tecnica, la maestria, le dimensioni, la caratterizzazione dei personaggi, la potenza evocativa, i simboli contenuti nel quadro. Ma è proprio la pittura olandese del tempo, concentrata sulla rappresentazione dei notabili committenti e delle loro ricchezze, a non attrarmi. Guardare, ad esempio, un grande dipinto con maschi pasciuti che sbafano l’allora costosissimo pane bianco insieme a stinchi di monumentali porci mi passa davanti agli occhi come un enorme sticazzi. Non sto negando l’importanza della pittura olandese del passato nella storia dell’arte, ci mancherebbe: sono un fruitore, non un critico. Sto invece dicendo che sull’arte, come su tutto quello che mi suscita risvegli sentimentali, sono soggettivo e non tutti i gusti sono al sapore di menta.
Di Rembrandt si può qui vedere anche il quadro noto come I Sindaci dei Drappieri che ha più di un perché. Lo ha, ad esempio, nei Sindaci che si voltano a guardarti, interrotti nel loro lavoro dal tuo ingresso nella sala.

Nel quartiere ebraico, vicino all’orto botanico, sorge il memoriale dell’Olocausto. Muri di mattoni gialli e rossi, ognuno con sopra nome e data di nascita ed età di un olandese assassinato dai nazisti. Centoduemila morti. C’è anche un muro dove i mattoni non sono incisi, per ricordare anche i morti non identificati. Per terra lungo il percorso sono stati adagiati dei sassi bianchi: i sassi che la tradizione ebraica richiede di deporre sulle tombe per segnarle. Sono i sassi della memoria, che è la parola incisa con le lettere ebraiche che si leggono all’ingresso del memoriale: in memoria di.

Nel parco adiacente ci fermiamo a rifocillarci, ché piove di bruttobrutto. C’è una tavola calda che si chiama Dignità, in italiano. È di una associazione senza fine di lucro, come scopriamo poi, con il personale più gentile della città e che fa dei dolci incredibilmente buoni. Tra questi la miglior torta di mele di Amsterdam e una mattonella di brownie al caffè che mi ha fatto fare pace con il mio essere panzone. Per accompagnare acqua calda, miele e menta.

Il sito di Dignità è questo: www.wearenotforsale.nl

Jordaan era il vecchio quartiere operaio, fuori dal reticolo dei canali. Oggi è quartiere residenziale molto fico, come capita un pò ovunque in occidente. Il ricco si riappropria della casa del povero, costruita solidamente e con uno stile essenziale e identitario, la sventra, la ridisegna all’interno come una reggia e ne centuplica il prezzo. Vuoi mettere la differenza con vivere nelle case del ‘600 tutte storte?

Amsterdam brulica di negozi e negozietti e gallerie che vendono arte. Ce ne sono un po’ ovunque in centro, tanto che non ho capito se esista un vero e proprio quartiere dell’arte, ma credo di sì. Come sempre capita nell’arte contemporanea, si possono apprezzare anche delle sesquipedali cacate.

Arte ovunque, anche per strada.

De Eilanden, le isole, è un gruppo di isole artificali nella zona nord della città. Costruite nel XVII secolo, ospitavano grandi magazzini per lo stoccaggio delle merci e del grano. Oggi quegli stessi edifici sono diventati appartamenti di lusso o sedi di gallerie d’arte.

C’è tolleranza nei confronti delle piante. Gli olandesi amano il verde e così le strade sono arricchite da rose rampicanti o da vasi di fiori fuori dall’uscio. Alcune aiuole sono seminata con fiori dagli abitanti, che le circondano anche di grossi vasi di piante. Molte houseboot hanno vasi sulla banchina o sulle loro terrazze, persino vasi galleggianti. Prova tu, in Italia, a mettere un vaso di ortensie davanti al portone di casa. Se nel frattempo i vigili non ti avranno multato la mattina dopo ne troverai due.

Altra cosa che si vede spesso sono certi sedili vicino alla porta di ingresso degli appartamenti. Panche, sedie o altro, hanno diverse forme. Chi ci abita può usarli per sedersi in strada a prendere il sole, quando c’è, o a godersi la sera in primavera.

A maggio il sole tramonta molto tardi e dopo le 22 il cielo mostra ancora bagliori di azzurro in lontananza.

Quando c’è il sole il cielo ha un bel colore turchese luminoso. Quando piove no.

Meteo piuttosto ballerino, sia in termini di sole/nuvole/pioggia che di escursioni termiche. Si può passare velocemente dai 15 gradi ai 25.

Gli amsterdamned trombano tantissimo.


A volte complicandosi la prestazione.

Che sia vero o no e al di là del quartiere a luci rosse, il loro rapporto con il sesso sembra essere migliore del nostro. Essere protestanti comporta dunque dei vantaggi.


Ceci c’est ne pas un

[La tripla x è il simbolo della città].

Dobbiamo chiederci se gli olandesi sono simpatici? Dobbiamo proprio chiedercelo? Meglio: chiediamoci se gli Amsterdamned sono simpatici. E rispondiamoci: no. Ovviamente generalizzo, ci sono persone simpatiche ovunque nel mondo, persino in Francia c’è gente simpatica. Ma sono sicuro che se fossi biondo come loro, gli amsterdamned mi sarebbero più simpatici.

Mi chiedo anche se la scarsa o nulla cortesia potrebbe dipendere dal fatto che la città brulica perennemente degli odiosi turisti [=stranieri]?

Per tutto il tempo mi sono dovuto ripetere: sei ad Amsterdam, questa non è Vienna.
Questo pensiero non ha una motivazione razionale. Non dovrei nemmeno dirvelo.

Dalla stazione centrale, lato fiume [in realtà non è proprio un fiume, è il prolungamento di un lago], ci sono alcuni imbarchi. Da qui partono [e arrivano] continuamente traghetti gratuiti per pedoni e biciclette che consentono di raggiungere l’altra sponda del fiume.

La zona sull’altra sponda si chiama Noord ed è decisamente residenziale, oltre che piuttosto figa. Vi si trovano il museo del cinema e il museo di street art. Vicino a quest’ultimo si possono vedere numerosi murales nelle strade.

È una zona in espansione ma attenzione: ogni linea di traghetto conduce a destinazioni anche piuttosto distanti tra loro.

Nel quartere dei musei c’è una strada del lusso dove ho visto code ordinate per entrare da Hermès o da altri scarpari/borsari/abitari.

Qui per la prima volta ho visto un negozio con il marchio di una stilista italiana che fino a qualche mese prima non avevo mai sentito nominare e che ha davvero a quore il benessere dei suoi dipendenti di sesso femminile. Quindi esiste davvero.

Pochissime automobili. Quelle che ci sono sono per la maggiorparte non economiche, con grande diffusione delle Tesla di quel disgraziato che le produce. Perché dice che non inquinano.

Amsterdam conta circa 820.000 abitanti e 1.200.000 biciclette.


L’inferno.

Ad Amsterdam alcune cose brillano per la loro assenza.
Intanto le deiezioni canine, insomma la cacca di cane. Non ne ho vista nessuna, in nessun quartiere. Pochi anche i cani, la verità, ma evidentemente se fai cacare il cane sulla ciclabile gli sparano. Oppure i cani in Olanda non cacano, chissà.
Poi gli insetti. In una città piuttosto verde, con tanti fiori in strada e sulle houseboot e nei parchi, di insetti ne ho visti tre. Questo fatto a mesi di distanza non smette di inquietarmi.
Gli anziani. Pochissimi. Amsterdam brulica di trentenni e ventenni ma gli anziani sono rari. Quelli che si incontrano spesso sono turisti e se per caso attraversano inavvertitamente una ciclabile senza distinguerla dal marciapiede ci pensa uno scooterista a fargli la rasetta apposta per educarli a essere giovani.
I mendicanti, i barboni. Una città meridionale come Barcellona ne è piena, sopratutto di notte quando si radunano negli angoli del Barrio Gotico per organizzarsi per dormire. Ad Amsterdam invece sono ariani e il massimo del barbone è quel ragazzino sfatto di droga che ti chiede un euro, una sigaretta, mezzo panino mozzicato.
Le carrozzine. Non quelle dei bambini. La Francia è il Paese dove ho visto più disabili in giro, accompagnati da amici e familiari come dovrebbe essere in ogni Paese civile. In Olanda non ne ho visto nemmeno uno, eppure ho camminato parecchio e ovunque c’era gente. Sarò distratto io o sarà un caso. Oppure saranno prudenti loro, a non uscire di casa con tutte quelle biciclette sfreccianti.

Una cosa che brilla per assenza in positivo, tuttavia, c’è: non ho visto un singolo, stramaledetto, fottutissimo monopattino elettrico.

Il ritorno.
Schipol è un cosobiancoporto molto grande dove tutto, tra ritardi e divieti, funziona malissimo. Malissimo. E dove alcuni di noi, scambiati per drogati, sono stati sottoposti ad approfonditissimo controllo dei bagagli.
Se potete, andate ad Amsterdam in auto.
O a piedi.
In bici no, basta bici, basta.

In definitiva Amsterdam è una città molto bella con troppe biciclette, moltissimi giovani e pochissimi anziani, molto adatta ai primi, molto meno ai secondi. È bella ma non ci vivrei.
Un viaggio però ci sta e questo è stato bello di molto. Sono grato a tutti coloro con cui lo ho condiviso, che qui abbraccio idealmente e che nomino in senso alfabetico e assolutamente sessista [prima le femmine]: Annalisa, Elena, Lucia, Marghe, Mari, Paola, Simona, Alberto, Dome, Enri, Guido, Luca.
Ultimo ma non ultimo Marco, senza il quale questi viaggi sarebbero impossibili e che si fa, ogni volta che li organizza, un culo tanto per tutti noi, banda di ingrati lamentosi.

P.S.
Le foto sono mie, tranne questa, scattata con la macchinetta di Guido. Chi crede di riconoscermi in sella a uno di questi mezzi del demonio si sbaglia di grosso, vittima di un banale errore di prospettiva.
E del fatto che non ho Photoshop.

World Press Photo

Grazie al suggerimento di un’amica anonima ho scoperto che a Torino è in corso la mostra delle foto vincitrici del World Press Photo Contest 2022. Ne sono reduce. La fondazione omonima si occupa di fotografia di reportage e premia ogni anno scatti che, mi si perdoni la semplificazione, raccontano il mondo. Un paio di riflessioni.

La prima è piuttosto evidente a tutti e riguarda la constatazione che la fotografia è oggi la forma di giornalismo più pura e maggiormente oggettiva. Certo, il fotografo ha un punto di vista come ogni altro giornalista, però è molto più facile mistificare la realtà a parole che con un’immagine [per confutare questa mia affermazione nella mostra c’è una serie di foto costruite a computer per dimostrare come sia facile creare fake news]. Il fotografo può omettere di mostrare qualcosa o anche suggerire un’idea attraverso l’angolazione scelta; chi scrive può, più semplicemente e facilmente, mentire. Anche per questo quando un fotoreporter viene ucciso dovremmo sentire il dolore doppiamente sulla nostra pelle.

Le foto sono molto belle, come quella del pastore indiano che veglia sul suo bestiame minacciato dalle tigri in Bangladesh, o come quella della ragazza mascherata che rilancia un fumogeno in una manifestazione contro un colpo di stato militare in Sudan, o quella dei ragazzini palestinesi protetti da una tenda durante l’ennesimo e breve cessate il fuoco a Gerusalemme. In una foto vediamo Trump, in un’altra c’è Bolsonaro. Tuttavia i protagonisti di questi scatti sono gli ultimi del mondo: la storia siamo noi, diceva mia nonna.

Di questa mostra, alla GAM fino al 18 settembre, consiglio la visione. È utile per pensare che esiste un mondo lontano da noi di cui non sappiamo nulla, un mondo dove accadono cose terribili che preso o tardi potrebbero riguardarci. Visitarla serve ad accrescere la nostra consapevolezza.

Il difetto, come sempre in questi casi, è che con molti fotografi le storie risultano per forza di cose monche. Il fotografo che documenta la chiusura di un cinema afghano avrà scattato lì un migliaio di fotografie, mentre nell’esposizione ce ne sono quattro. Assistiamo così al racconto di una storia per frammenti, facendocene un’idea senza poter approfondire. Vero anche che questa modalità espositiva è un sacrificio necessario per la fruibilità della mostra.

Segnalo due autori, non necessariamente i migliori. 

Kosuke Okahara ha realizzato un video montando foto di suoi reportage nei quartieri poveri di una città del Giappone e mescolandole ai suoi sogni, in un continuo rimando tra memoria, realtà e immaginazione dove tra tenere gli occhi chiusi o aperti sembra non esserci differenza.

Irina Werning è una fotografa argentina. le sue foto, tutte posate, non sono un vero reportage e infatti non mi sembrano del tutto adatte a questa mostra. Eppure. Raccontano la storia di una ragazzina di dodici anni, Antonella, che nel 2020 causa lockdown fa il voto di non tagliarsi i capelli finché non le sarà consentito di tornare a scuola. Alla fine li taglierà. ma la foto che ho scelto di farvi vedere è questa, posatissima [anche il phon è spento], eppure pregna di poetica e calore familiare. Sopratutto: il fumetto che Antonella ha in mano, per chi non lo ricoscesse, è l’Eternauta 

Rimane la cera

A un certo punto ti rendi conto che molti ricordi sono scomparsi. Anche quelli a cui tenevi. Sono scomparsi e nemmeno te ne sei accorto. Se ne sono andati in soffitta, senza tante storie e senza fare distinzioni, a prendere polvere. A volte ci restano per sempre, altre volte ti si ripresentano all’improvviso, di solito per via di un caso. È il destino di tante cose che ti sono capitate, che hai letto, cantato, fatto.
Così era da molto tempo che non pensavo più a Samuele Bersani, non solo o non soltanto per la sua musica, che pure ha una grazia particolare. [Ti prende per mano, ti porta]. Quello che mi mancava era proprio il ricordo delle sue parole. Le parole di Giudizi Universali, ieri sera, le ho rispolverate tutte. Una ad una. E non smetto di pensarci.

Agosto è il mese più crudele

Agosto è il mese più crudele, genera calore dalle strade lastricate con pietra lavica, mescola il ricordo con il desiderio* e fa aumentare il consumo di acqua del maschio della specie di almeno il 400%: Dio salvi i negozi bangla.

Al contrario, camminare di notte per le strade deserte di una città, anche sudando, è un piacere che intendere non lo può chi non lo prova.

Da tempo visitare una città o una regione è per me sopratutto occasione di vedere come e cosa si mangia da quelle parti. Non è mai in discussione il mio amore per la parmigiana di melanzane. Tuttavia con l’età ho realizzato, cosa che anni fa non mi era chiara, che di fronte a più alternative preferisco quasi sempre un piatto realizzato con la pasta, che preferisco quasi sempre un primo a un secondo. A Roma i primi sono principalmente quelli con la triade pasta-pecorino-guanciale. Il mio pensiero è libero da talebanesimi gastronomici ma è evidente che chi usa la pancetta nella carbonara o nella amatriciana è un poveretto.
Sto scherzando, la tradizione è fatta per essere tradita.
Però il guanciale ha e dà un gusto tutto diverso.
È per questo che qualcuno può legittimamente preferire la pancetta.
Poi la pizza bianca. A Firenze tornando a casa da scuola mi fermavo dal panettiere e comperavo cinquecento lire di schiacciata. Schiacciata di nome perché di solito era piuttosto lievitata, morbida, unta e salata. [Ero un ragazzino grasso]. La pizza bianca invece è sottile, croccante, unta e salata. [Sono un adulto morbido].
Proseguendo da Castel Sant’Angelo, attraversato il ponte, c’è sulla destra il Forno di Castel Sant’Angelo, mi pare si chiami così. Un posto anonimo, piuttosto disordinato al quale non avrei dato una lira. Invece mi ha salvato da crisi ipoglicemica certa grazie ad una imposta di pizza bianca, pomodoro, mozzarella e prosciutto cotto buono. [Con una coca gelata]. A Torino ci sono posti così? Tipo salumiere o pizzicagnolo, dove farsi un panino con il prosciutto buono tagliato di fresco? Quando andavo al liceo c’era Castagno, con il suo panino salamino e crauti. Oggi? non ne conosco. Stesso discorso per la cucina di tradizione locale. La cucina piemontese a Torino città è rara. Ancora più rari sono quelli che la sanno fare. A Roma i ristoranti di cucina romana sono mille e quelli bravi, da quanto sperimento, sembrano essere in buon numero. [Ho visitato con profitto sia la Taverna Cestia che Roscioli: due cose molto diverse, molto apprezzabili entrambe].
Intanto il supplì fatto bene ti riconcilia con la razza umana
[Beh, quasi].
Altro bonus di quelli grossi è stato rivedere e riabbracciare [con mascherina] il mio antico compagno di banco del ginnasio.
La maggiorparte dei locali che ho frequentato rispettano le regole Covid. Tutto il personale con la mascherina, puoi entrare solo indossandone una, etc.
Due eccezioni abbastanza eclatanti: un bar piuttosto famoso vicino ai Mercati di Traiano dove nessuno disinfetta o solo pulisce i tavoli del dehors liberati dai clienti; e un ristorante bistrot piuttosto famoso con cucina a vista, all’interno della quale nessuno indossa la mascherina. Ho cortesemente rifiutato l’offerta del dolce.
Se abitassi a Roma peserei duecento chili e avrei il fegato delle dimensioni di quello delle vacche. D’altra parte se abitassi a Roma sperimenterei quotidianamente la cura alla congiuntivite. Forse mi si ridurrebbe persino la miopia.

A Roma ci sono sei Caravaggio, in tre chiese diverse. Non sapevo che uno dei sei fosse la Vocazione di San Matteo. Uno tra i dipinti più importanti della storia del cinema, il ‘500 che prende per mano il Rinascimento per portarlo nel futuro. Purtroppo non è possibile mettersi a guardare la Vocazione standole di fronte: è appesa sul muro di sinistra di una cappella in San Luigi dei Francesi nella quale non si può entrare. Giuro che va bene lo stesso.
Nei casi come quello di Caravaggio [o del Paz, per citare un artista di pari livello] mi chiedo sempre cosa sarebbe successo [alla storia dell’arte] se non fosse morto giovane, se non avesse avuto quel suo brutto carattere. Discorso analogo per Raffaello. Ma a che serve? è andata così.
Senza quel carattere, poi, probabilmente Caravaggio avrebbe dipinto Madonne con i gattini e ratti delle Sabine. [Senza l’eroina Paz non avrebbe disegnato Pompeo].
Le chiese romane sono tutte aperte, tutte visitabili senza pagare. Per illuminare alcune opere devi mettere la monetina. Ci sta.
Monetina necessaria anche per il Mosè di Michelangelo [Buonarroti, non Merisi], che sta in una chiesa senza facciata [a Roma ce ne sono almeno due così] ed è un’altra opera che guardarla in foto non rende affato.

In San Luigi dei Francesi un’iscrizione in latino dichiara che chi prega per il Re di Francia avrà dieci giorni di indulgenza. Mi sembra un affare. Garantisce Innocenzo IV.
Non conoscevo l’esistenza del Giardino degli Aranci, che sta sull’Aventino ed è un luogo di quiete bella. Recintato con un alto muro in mattoni, attaccato alla Basilica di Santa Sabina, contiene aranci, alti pini che danno refrigerio dal caldo e un ampio belvedere.

Mi è piaciuto scoprire che il belvedere è intitolato a Luigi Magni. Lì c’è anche viale Nino Manfredi e persino viale Fiorenzo Fiorentini.
Tutto l’Aventino è bello, silenzioso, senza traffico. Una enclave di scuole private, palazzine basse per ricchi o sedi di istituzioni ecclesiastiche. Lontano da Roma, a Roma.

La piazza dove c’è il buco della serratura è tale a quale al Largo delle Tre Api. Chi ha amato Roberto Raviola sa di cosa parlo.
Ai Musei Vaticani c’è un portone sopra il quale stanno seduti Michelangelo, con un martello in mano, e Raffaello, che regge una tavolozza. Sono i due protagonisti di quello che si vedrà dentro ma pure di tanto di quanto si vede fuori.

Come si può vedere dalla postura, a Michelangelo Raffaello, figlio di papà, giovane, tecnicamente fenomeno e pure belloccio, stava sui maroni. Per forza.
Michelangelo è ovunque. Nelle statue che ha restaurato, nella Cappella Sistina, nel ritratto che gli fece Raffaello nella Scuola di Atene, nel Mosè, nella Pietà in S. Pietro, nel Cupolone. Può venire da pensare che la Roma del ‘500 sia tutta opera sua.
Ovviamente non è così
[Tuttavia].
Di fronte all’Ara Pacis stanzia Fausto delle Chiaie. Sta lì dal 1989. Ogni giorno dal 1989. Dice, e ha ragione, che quelli di passaggio siamo noi.

I romani litigano senza urlare. Il loro tono di voce è alto, ché tutti sentano e apprezzino le frasi salaci che vengono pronunciate. Le sillabano quasi, senza scomporsi, anche con espressione grave. Se ne dicono di ogni senza menarsi. Anzi, dopo si salutano pure in un pacifico stile alla vattelapijànderq.
Nei Musei Vaticani per accedere alla Cappella Sistina si passa attraverso diverse stanze che espongono opere di arte moderna e contemporanea. Non me lo aspettavo, era tardi, non c’era più tempo, c’era Morandi, c’era Bacon, mi hanno fregato.
Questo invece è Giulio Romano che racconta a forza di corpi e colore di come Costantino ebbe la meglio su Massenzio.

Quello che rimane di Raffaello sta nel Pantheon, una delle costruzioni più belle che ci siano a Roma. Per le proporzioni, per la forma, per il genio architettonico di chi lo pensò. Una volta l’anno, il giorno di Pentecoste, i pompieri romani si arrampicano sul tetto e buttano giù dal foro centrale della cupola una cascata rossa di petali di rosa. Quindi potreste supporre che io sappia cosa il giorno di Pentecoste è. Ecco: no.

L’unico aspetto negativo del Pantheon è che contiene i Savoia.

Alle Terme di Caracalla si resta a bocca aperta come il mascherone soprastante, che sta invece ai Musei Vaticani. Anche se svuotate di tutto, anche se resistono in piedi solo gli antichi muri [e in parte]. Le osservo e il fatto di averle immaginate, prima che costruite, così gigantesche mi sembra, mentre le cicale fanno cra-cra-cra, incredibile. Oggi sarebbe possibile costruire edifici di quel tipo e quelle dimensioni, rapportandoli alle proporzioni della Roma moderna? Ci vorrebbero gli schiavi e quelli si trovano sempre. Il vero problema è che l’appalto lo vincerebbe Fuksas.

Le enormi Terme di Caracalla contenevano statue altrettanto enormi, come il Toro Farnese, e tante altre decorazioni e suppellettili che furono portate via per essere destinate ad altri utilizzi. Tra queste c’erano le due vasche gemelle che adesso fungono da fontane gigliate di fronte a Palazzo Farnese.

Tra le sue tante attività Michelangelo restaurava le statue antiche fatte a pezzi e/o abbandonate nei campi. [Una volta qui era tutta campagna]. Non volle però mettere mano al Torso del Belvedere [dignus non sum], opera greca del I secolo a. C., di Apollonio.
Tuttavia lo utilizzò come modello per il Cristo del Giudizio Universale, che ha postura analoga e questo fisicaccio qui.

Una delle tante statue restaurate da Michelangelo è il Gruppo di Laocoonte, ritrovata smembrata in un campo e da lui ricomposta. Pare che quando la videro finita Michelangelo e il Papa [credo fosse Giulio II] si abbracciarono piangendo.

Magari non è vero, che piansero, ma mi pare fico.
Questa delle statue greche e romane disperse con la fine dell’Impero romano è una storia interessante che mi piacerebbe approfondire. Oggi le vediamo perché i principi delle grandi famiglie romane, anche perché incaricati dai papi di recuperarle, se ne appassionarono e ne diventarono collezionisti.

Vabbeh, qualcuna la rubarono, dai.

Tornare a Roma dopo 32 anni di latitanza consente di capire dove si trovano i luoghi visti ne La Grande Bellezza, come il citato buco della serratura, e così comprendere qualche dettaglio ulteriore del film.
Che resta un gran film.
Sì, esatto.

L’iscrizione sulla piccola edicola dedicata al poeta Giggi Zanazzo che sta su un muro in una viuzza del centro. Giggi con la doppia g e Zanazzo con la doppia z. Recita così: “Da la loggetta / di casa mia m’affaccio / e guardo in giù / vedo la strada / vedo la piazzetta”.
Lì per lì mi è scappato un mecojoni ma stavo per dire sticazzi.

Iscrizione in pietra all’ingresso di una macelleria dietro Campo dei Fiori: beccheria.
A Roma capita anche di incontrare macellai con il casco.

Che fai, vai a Roma e non passi da Campo dei Fiori per salutare un vecchio amico?

Il Nuovo Sacher è il cinema di periferia che immaginavo, con il cancelletto. Passo anche davanti al Capranica, che avevo immaginato diverso, più grande, che sembra chiuso per sempre.
Poca gente in giro, anche in Piazza San Pietro.

Un simpatico signore conosciuto sull’autobus mentre andavamo alla mostra sui Caravaggeschi, ce l’aveva con la costruzione che contiene l’Ara Pacis, secondo lui orribile [la costruzione, non l’Ara]. Diceva che non c’entra niente con il resto della città. Mah. Intanto a me quella scatola in vetro e cemento piace e se passi sul marciapiede di fronte quando è notte ecco l’Ara illuminata, visibile. Poi. Se mi guardo intorno, lì come in tutto il centro, vedo edifici del ‘400 attaccati a colonnati romani, palazzi del’ 700 con di fronte obelischi egizi. Pur con notevoli differenze tra un quartiere e l’altro, dovute ai diversi periodi storici della loro edificazione, si fatica ad incontrare uno stile architettonico che sia completamente definito. Certo, Trastevere è diverso dall’Aventino ma ovunque compaiono elementi di disturbo, se così posso dire. Il riutilizzo dei materiali, le chiese costruite sui templi pagani, le colonne e gli obelischi trasportati dall’Egitto e poi finiti in palazzi e piazze cristiane, le case edificate con pietre di basiliche romane. In questo disordine architettonico, come nel negozio a cielo aperto di un gigantesco rigattiere, nasce una inaspettata armonia, nella quale ogni occhio può trovare il suo appagamento. È l’armonia che nasce dal caos, dalle differenze. Avremmo potuto imparare dall’Impero romano e invece abbiamo dimenticato ogni cosa. Armonia delle cose e armonia degli uomini. Le civiltà migliori, le più evolute economicamente e culturalmente sono storicamente quelle dove uomini e cose di diverse provenienze trovano un luogo comune di convivenza pacifica, arricchendosi a vicenda. Caracalla rese cittadini romani tutti gli uomini liberi che vivevano nell’Impero. Caracalla era una sanguinario e pure piuttosto zotico però non chiudeva certo né i porti né le autostrade, accoglieva tutti. La sua fu una mossa per aumentare il numero dei contribuenti, va bene, ma sono dettagli. Sono sicuro che se ci avesse riflettuto anche lui si sarebbe reso conto che nella diversità sta il senso più profondo dell’umano.
Peccato, vero?

*[Libera traduzione degli immortali versi del poeta latino Publio Tomaso Elioto]

L’ultimo ballo.

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“Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, le cortesie, l’audaci imprese io canto”, scriveva Ariosto del suo Orlando. Qui c’è tutto, anche le donne: le ha portate Rodman. L’Orlando, va senza dire, è lui, Michael Jordan, conosciuto anche come Black Jesus o, più direttamente, Dio. È un’epica moderna quella che viene fuori da The Last Dance, il documentario sull’ultima stagione di Jordan ai Bulls, che è anche il racconto della vita sportiva del più grande giocatore di pallacanestro che sia mai sceso in campo. Dell’epica ha la musica, dell’epica ha le immagini, il ritmo, il tono del racconto delle imprese, come se si stessero svolgendo oggi e non venti o trenta anni fa. L’epica funziona così, Ariosto lo sapeva.
Eppure, ohibò, quello che viene fuori da queste dieci puntate da mani sudate e da lacrime resuscitate è anche che gli eroi dello sport sono esseri umani come tutti gli altri. Egoisti, determinati, pigri, esauriti, cattivi, meschini, forti, deboli, persino stronzi. E allora fanculo a tutti i racconti misticoapologetici di Buffa, al suo pronunciare Michael Jeffrey Jordan come se fosse sul punto di venire.
Il GOAT. Il più grande di tutti i tempi. Concetto che non ha nessun senso, sia perché stiamo parlando di uno sport di squadra, sia perché per sapere chi è più forte tra due giocatori ci vuole almeno uno scontro diretto. Le statistiche? Sapete dove metterle.
Nessun senso e tuttavia Michael Jordan è stato il più grande di tutti. Ora lo sanno anche i ragazzini. No Bill Russel, no Chamberlain, no Kareem, no Kobe, no Lebron. Il più grande. Sul campo, come uomo chissà e in fondo chissenefrega. Lo avevo sempre considerato uno stronzo ma adesso non so dire. La pressione che ha dovuto sopportare e la competitività innata [ad un livello assolutamente inconcepibile per chiunque] ora mi sono più comprensibili. Così come i motivi del primo ritiro, la fatica di continuare a sopportare le aspettative che il mondo intero riversava su di lui. Jordan si chiuse ancora di più in sé stesso, usando la pallacanestro come la tartaruga fa con il suo guscio. Rifugio e Forza.
Della sua vita privata si è sempre saputo poco. La moglie, i figli. Il gioco d’azzardo e la mai chiarita morte del padre sono tra i pochi aspetti che lo fanno sembrare un essere umano, con le sue debolezze. D’altra parte della vita privata di chiunque dovremmo battercene e farci gli affari nostri. Così faccio anche questa volta.
Insomma, i ricordi belli, nonostante quella musica ansiogena, con tutte le sensazioni di allora che ritornano come fosse ieri. La meraviglia della pallacanestro NBA degli anni ’90, mostrata com’era, senza solleticare nostalgie da anziani. I giocatori di allora, con pochi role-player e tanta tecnica, tanta grazia nei movimenti e, sopratutto, tanta difesa. Le mazzate da cecati, date per fare male e a volte nemmeno fischiavano fallo. Le mie prime Air-Jordan, le scarpe più belle mai disegnate. Rodman, uno dei difensori più forti di tutti i tempi, siderale testa di cazzo, modello assoluto per tutti quelli che, come il sottoscritto, non avevano talento offensivo. Pippen, guardia-ala da attacco e difesa come da allora non ce ne sono più state, del quale incredibilmente non si ricorda mai nessuno. Phil Jackson, allenatore e uomo mitologico e beato chi non ha avuto bisogno dei sottotitoli per capire cosa diceva in video, uno studioso del gioco e dell’animo umano. E finalmente ho visto che faccia avesse quel ciccione di Jerry Krause, l’uomo che se non ci fosse stato lui sei titoli a Chicago non sarebbero mai arrivati.
Ora lo posso dire.
Ho sempre tifato contro Michael Jordan. Sempre, dalla prima volta che lo vidi giocare e contro chiunque giocasse. Lo detestavo.
Perché sono ateo e quello stronzo quando aveva la palla in mano era veramente Dio.

Quando sarò morto

Cose, belle o brutte o buone o molto brutte, che ricorderò di questa quarantena quando sarò morto:

– il senso di straniamento dei primi giorni, quando sul cavalcavia di corso Sommeiller ho sentito distintamente, e per la prima volta lì, il rumore dei miei passi
– le code davanti al distributore di tabacchi di fronte casa, la sera del primo decreto
– le code al supermercato
– le code nella città per il resto deserta
– la città deserta
– la gente che canta al balcone alle 18, spesso a cazzo, la verità
– Morgan sul monopattino che canta la maleducazione
– le cacche di cane aumentate esponenzialmente sui marciapiedi, come di cani fantasma
– le auto parcheggiate sempre più ad minchiam con il passare delle settimane
– quella moto che ho incontrato per due mesi, ferma nello stesso identico posto, ogni volta che svoltavo a destra per tornare a casa dall’ufficio e stasera chissà
– le poche auto circolanti che non rispettano alcuna regola del codice della strada, tanto non c’è nessuno
– l’abolizione definitiva dell’obbligo di utilizzare gli indicatori di segnalazione
– le regole
– sei piani di scale a piedi
– la polizia che multa i trasgressori ad canis mentulam et panthera pardi maculam [non le auto male parcheggiate]
– lo scendere in strada senza pensare prima a pettinarsi, tra ricrescite, barbe incolte, abiti spiegazzati e ciabatte
– la scomparsa miracolosa dei ciclisti
– glovisti esclusi
– i glovisti che vanno sul marciapiede o contromano anche in assenza di auto
– l’ufficio complicazioni affari semplici
– la mia immagine nello specchio dell’ascensore
– la gente che sopratutto al chiuso ti viene addosso, come in preda a una sorta di prepanico, come se dovesse correre da qualche parte, come se non ti vedesse
– le madamine che approfittano del supermercato per criticare chiunque, da chi sta a meno di due metri e ventisette centimeti al vecchietto che non ha capito in che fila si deve mettere alla signora che al banco della salumeria chiede 80 grammi di qualunque cosa. Se ne lamentano con le cassiere, tardando a riporre la spesa nei loro sacchetti e a togliersi, finalmente, dai miei coglioni
– sono le stesse che in tempo di normalità vanno a prendere figli e nipotini a scuola lasciando il suv in sesta fila
– le voci che si rincorrono, della serie “ho sentito dire che”
– la risposta alle voci, che è sempre: no
– la sciatteria di chi dopo qualche settimana ha cominciato a lasciare le sue scarpe sullo zerbino di casa e adesso ce ne sono quattro o cinque paia e indovina a chi toccherà litigare?
– quelli che camminano in mezzo alla strada anche se sul marciapiede non c’è nessuno
– quelli che guidano l’auto indossando la mascherina
– quelli che quando ti incrociano a piedi scendono dal marciapiede
– o camminano sul margine estremo dello stesso
– quelli che quando li incontri si vede che vorrebbero parlare ma hanno anche fretta di andarsene
– l’orgia di dati, tutti diversi, tutti contestati, tutti contestabili, tutti sbagliati
– l’orda dei virologi
– le cure nuove e straordinarie che scopriamo ogni giorno in Italia e chissà come mai non le adottiamo in tutti gli ospedali, chissà come mai le scopriamo tutte noi, chissà come mai siamo così bravi e nessuno ce lo dice
– le conferenze stampa del presidente del consiglio, buon padre di famiglia senza figli che tratta i suoi non figli come bambini di cinque anni
– le mosse del governo che, in mancanza di un piano spendibile, racconta ogni giorno una supercazzola diversa trattando i cittadini da irresponsabili di cinque anni
– le conferenze stampa dei capi di protezione civile e ISS e compagnia cantante, tutte incentrate sulla responsabilità dei cittadini, irresponsabili cinquenni
– il nonpadre/presidente di cui sopra che magnifica l’Inps come il migliore dei servitori della patria invece del carrozzone che è e sarà
– i cittadini dall’età mentale di cinque anni, delatori di runner e anziani innocui
– l’opposizione, composta da quattrenni
– l’Inps, che qualche soldo lo risparmierà senza per questo pensare di destinarlo ad acquistare un paio di server decenti
– i congiunti
– le regole burocratiche con ventisette interpretazioni possibili per ognuna
– la messa a fuoco delle cose
– la messa a fuoco delle persone
– l’umanità di molti
– il panico di molti
– quello che muore. Immaginarlo da solo in un letto con dei tubi nel naso. Guarda quelli nei letti intorno al suo con medici e infermieri, ectoplasmi azzurri, che si affannano. Poi li vede che vengono verso di lui per continuare ad affannarsi attorno al suo letto. Infine annega. Da solo.
– la morte per acqua, che io la pensavo diversa
– la resurrezione delle credenze popolari, dei complottismi, dei noncidiconolaverità, del virus creato in laboratorio, del novaccinismo di ritorno, dell’esercito USA che viene ad invaderci/infettarci, del chissà come mai in Russia non ci sono morti e neppure in Turchia e neppure in Corea del Nord. Tutti fenomeni figli della paura, l’importante è che il pollo costi poco, e se è allevato in batteria cazzi suoi, mica sono un pollo io
– la solidarietà
– quelli che vorresti proteggere in qualche modo e non si può
– quelli che mandarli a fare in culo mi costa troppa fatica
– il bisogno insopprimibile che molti sentono di andare a messa nonostante i divieti: quindi non era vera quella faccenda dell’ubiquità
– qualche ansia passeggera
– quelli che si sono adagiati sui divani e ora qualunque cosa debbano comprare la cercano su internet
– quelli che sì, vorrei essere libero di uscire, ma ora che sono costretto a stare in casa ho un’ottima scusa per non uscire
– quelli che sbraitano contro il MES ma se gli chiedi cosa è non lo sanno
– i ristoranti e i bar che fanno consegne a casa
– fare il pane
– scrivere, tanto
– leggere, poco
– gli intralci
– imparare a cuocere bene le costine in forno
– imparare
– il sonno perduto
– quelli che sono stati da soli per cinquanta giorni
– il postino che consegna il 24ore ogni tre o quattro giorni
– i fagioli, i fratini e la scoperta che il cumino non serve a un cazzo
– le telefonate, fatte e ricevute, che io e il telefono andiamo molto poco d’accordo ma ci volevano
– la scomparsa di ogni fibra muscolare e il calo di peso
– minimo, ma sempre calo è
– la Cassa Integrazione in deroga
– i DPI
– le mascherine prodotte ma in deroga
– la vita che prende strade che pensavi che non avrebbe preso, non così presto
– la nostalgia di alcuni esseri umani
– quelli che hanno perso il lavoro
– quelli che lo perderanno
– quelli che credono che il mercato riequilibrerà tutto, redistribuzione dei posti di lavoro e ripartenza dello sviluppo economico inclusi, come se fosse di Babbo Natale prematurato a destra
– quelli che hanno visto le crisi economiche ma non si ricordano mica
– quelli che quando tutto sarà finito non si ricorderanno dei guai dell’amministrazione Fontana, dei pasticci dell’amministrazione Cirio
– quelli che li rivoteranno fidandosi del loro buon senso
– quelli che in politica fanno il tifo senza guardare mai ai fatti
– quelli che fanno il tifo per il virologo del quore, che me lo avessero detto sarei scoppiato a ridere e invece adesso mi cadono le braccia [o una cosa del genere]
– le piante sul mio balcone che ai primi di maggio per la prima volta non hanno un singolo acaro, un singolo fungo. E fioriscono, tutte.
– quella volta che mi sono caduti gli occhiali e per fortuna non si sono rotti. Senza non so come avrei fatto
– i capelli che sono cresciuti a dismisura, come la barba, ma si sporcano molto meno del solito. Se non li lavo per due giorni sono ancora puliti
– non mi credete, vero?
– il fatto che non è mica finita qui, anche se lo hanno capito in pochi
– la normalità, che incombe minacciosa, ad uso e consumo degli stronzi

[Chiedo venia, avevo bisogno]

Liberazione

Copio questa citazione vista stamattina su FB da Marco Ciriello, che sempre ringrazio di essere uomo attento alle cose:

“Non è per via della gloria, che siamo andati in montagna, a far la guerra. Di guerra eravam stanchi, di patria anche. Avevamo bisogno di dire: lasciateci le mani libere, i piedi, gli occhi, le orecchie; lasciateci dormire nel fienile, con una ragazza. Per questo abbiam sparato, ci siamo fatti impiccare, siamo andati al macello col cuore che piangeva, con le labbra tremanti. Ma anche così sapevamo che di fronte a un boia di fascista noi eravam persone, e loro marionette.

[Nino Pedretti, Al vòusi e altre poesie in dialetto romagnolo, Einaudi]

Domani è il 25 aprile, la citazione parla di questo. Di libertà. Come ho scritto ieri altrove, sono molto preoccupato. Quando le strategie messe in atto dai mass media, in primis televisione e giornali, fanno intravedere da un lato un possibile schieramento politico unitario e dall’altro la morte del pluralismo, la libertà vacilla. La libertà infatti consiste anche nel potere dire quello che si pensa. È quello che faccio, voglio poterlo fare a lungo.
Qualcuno dirà che queste cose accadevano anche l’anno scorso, che l’allora ministro dell’interno aveva detto ben di peggio, in merito alla festa del 25 aprile, e poi non è successo niente. Se decido di dare una testata al muro non è detto che poi io muoia. Ma se ne do due, cinque, venti, trenta, la cosa si fa probabile.
Questo è comunque un 25 aprile molto strano, per tutti. Ci invita a riflettere lasciandoci con noi stessi più a lungo del solito. Ed è una cosa straniante, che può arrivare ad essere dolorosa, eppure è necessaria. Stavo per scrivere che è sana, il che di fronte ad un’emergenza sanitaria sarebbe suonato beffardo. Un 25 aprile come questo non lo aveva immaginato nessuno: la festa della libertà durante la negazione della libertà. Di movimento, di incontro, di lavorare, di abbracciare. L’unica libertà che nessuno può eliminare, nemmeno il fascista più accanito, è quella del pensiero. E così, in solitudine, elucubro più del solito.

Intanto c’è la faccenda del mettere a fuoco. Ci rifletto da un po’ e mi ci ha fatto ripensare Rossella durante uno scambio di battute con Nicole. In tutto questo casino immobile un fatto positivo c’è ed è proprio la messa a fuoco delle cose [e delle persone]. Quando si poteva viaggiare il panorama dal finestrino di un treno era sempre sfuggente. Gli oggetti più vicini restavano visibili per una frazione di secondo, a volte inconoscibili e irriconoscibili, quelli più lontani rimanevano più a lungo nel campo visivo ma erano troppo lontani per poterli indagare e comprendere. Adesso non viaggiamo più. Al massimo camminiamo, la fretta è scomparsa. Per un po’ sarà così ed è anche pesante. Tuttavia la mancanza di fretta mi consente di aprire gli occhi. Come se quei due o tre  neuroni che avevo dato per spacciati fossero risorti con la Pasqua. Una nuova, insperata, lucidità che riguarda sopratutto me stesso, il mio passato, il mio presente e il mio futuro. Che non significa avere smarrito per strada tutti i difetti di cui, come tutti, sono farcio. Quello che spero è di riuscire a mantenere questa stessa ottica, questa messa a fuoco ritrovata, anche quando tutto sarà finito. Non vorrei fare come il personaggio interpretato da Steve Martin, sopravvissuto a un colpo di pistola in un vecchio film di Lawrence Kasdan, Grand Canyon. Chi lo ha visto sa di cosa parlo.

Poi c’è il volere bene.
La molla della sopravvivenza mentale di ogni essere umano è agganciata al volere bene. L’uomo è un’isola, come diceva mia nonna adorata. Eppure ogni isola ha bisogno di approdi e di qualche altro umano che, almeno ogni tanto, decida di sbarcarvi. Anche gli orsi come il sottoscritto sanno che siamo esseri sociali: volere bene significa letteralmente volere il bene di qualcun altro. Sembra un sentimento facile, non lo è affatto.
In questi giorni mi viene posta più spesso del solito la domanda che serve a rompere il muro del silenzio quando si incontra qualcuno che si conosce, il “come stai/state”. Ora che questa domanda passa solo più da un telefono a un altro, è diventata qualcosa di più profondo di una frase colloquiale. Contiene l’attenzione e l’intenzione di sapere se [che] tutto va bene.
C’è anche l’impulso di abbracciare. Mi hanno detto una cosa bella sull’abbracciare e sul sottoscritto, cosa che tengo per me, e, la verità, a me abbracciare piace parecchio. Non potendolo fare mi capita di dire una cosa che, forse per l’educazione ricevuta, prima non dicevo spesso. Ovvero: ti voglio bene.
È un abbraccio con le parole, non fisico ma non per questo meno sentito e vero. Lo dico. me lo dicono, è bello. Caldo. Sono convinto che tutti quelli che lo dicono a me in questi giorni sentono lo stesso impulso che sento io. Che è quello di Nino Pedretti, il signore che sta in testa a questo post.
Gli uomini e le donne liberi si abbracciano perché vogliono il bene l’uno dell’altra e viceversa.
Buona Liberazione.

L’unico modo per conoscere un posto è andarci – New York

Nella mia testa spesso risuona [rimbomba: con la o] una canzone. Di questo fatto non ho una spiegazione logica. So solo che capita che mentre sto pensando ai casi miei io senta arrivare una musica che scivola sui pensieri e piano piano aumenta di intensità, mettendoli a tacere. [Per la cronaca in questi giorni è: Matia Bazar a nastro, Dresden Dolls e Amedeo Minghi]. Non è necessariamente una musica collegata a quanto mi capita, anzi di solito non ha nulla a che fare con la vita che sto vivendo in quel momento. Arriva e basta. Quando viaggio le cose però acquistano un senso intelligibile e la musica nella testa diventa colonna sonora. Così anche questa volta ho sentito le voci. Intanto La Voce, cioè Sinatra che però mi cantava un’inopinata L.A. is My Lady invece di New York, New York. Quindi Alicia Keys e un poco di Billy Joel, una sfumatura di Springsteen [ma di notte, ché NYC Serenade richiede cielo nero e skyline illuminato] e infine l’immancabile dichiarazione d’amore impossibile: New York ti amo, ma mi stai distruggendo.

Aprile. Si viaggia con Alitalia, partenza da Milano perché costa meno [il volo AirFrance da Torino a prezzo stracciato lo hanno messo da poco]. Alitalia è partner di Skyteam. Sul cosobianco è un mantra, lo dicono in continuazione. Non ho idea di chi o cosa sia Skyteam e se io debba preoccuparmi. [Nel dubbio, mi preoccupo].
Volo da Milano a Roma e poi da Roma all’aereoporto JFK. Per me è sempre una fatica pesa, per cui mi tengo occupato smanettando sull’offerta audio/video del cosobianco intercontinentale. Lo schermo è piccolo e la qualità è scadente, sia dell’audio che del video. Uso i miei auricolari invece di quelli usa e getta forniti da Alitalia e va un po’ meglio.
Il primo film che scelgo di guardare è The Place, con Mastandrea e altri attori bravi o bravini. Parte da una bella idea e via via diventa una rottura di coglioni insostenibile. L’apice della quale [rottura] non è uno solo ma viene raggiunto ad intervalli più o meno regolari ogni volta che parte il contrappunto dell’entrata in scena di Ferilli Sabrina, il cui personaggio è utile solo a consentire alla storia di raggiungere uno stanco finale. Finito The Place, che sconsiglio a chiunque, ho iniziato a guardare La Forma Dell’Acqua. Ero poco oltre la metà quando siamo atterrati a Nuova York.

[Reprise.
Al ritorno ho finito di guardare La Forma Dell’Acqua. Mi ero appuntato il minuto cui ero arrivato perché se non scrivo le cose le dimentico. Per questo stesso motivo sto appunto scrivendo ora.
Per chi non lo sapesse, questa puttanata un paio di anni fa ha vinto prima il Leone d’Oro a Venezia e dopo l’Oscar per il miglior film ed è, appuntatevelo, una puttanata totale globale. Se avete amato il cinema e se lo amate ancora non potete sostenere nulla di diverso. Non è una favola, non è realistico, non è un sogno, non è originale né nella trama né nello svolgimento né nella costruzione della storia né nei personaggi. È una puttanata nella quale si salva solo lo scenografo, lui sì veramente bravo.
Dopo, ché certi viaggi con le ginocchia in gola sono eterni, ho visto Tre Manifesti a Ebbing. Epilogo a parte è un bel film. Nulla che resterà nella storia del cinema ma un bel film, nel quale la prima parte è migliore della seconda e con Frances Mc Dormand che è un fenomeno di attrice.
Ho finito il viaggio con le prime tre puntate di House of Cards che mi ero scaricato sul telefonino grazie al wi-fi dell’albergo. Ora sono in Italia e mi manca di vedere tutte le altre, che su Netflix Italia non ci sono. Merda].

Per entrare negli USA ci vuole l’ESTA. È il visto elettronico da fare per tempo [lo si può ottenere on-line e costa una quindicina di euro. I siti che ve ne chiedono quaranta o più ci stanno provando], da presentare all’imbarco in Italia e che dovrebbe servire ad avvisare che stai arrivando, che non sei un pericolo, che starai poco tempo. Così atterri, scendi dall’aereo e con ESTA e passaporto in mano ti illudi di fare in fretta. Ti metti in fila e sembra una fila piccola, corta. Pensi che ci starai ancora per poco, che puoi sopportare il gruppo di napoletani [di Posillipo] che ti spingono da dietro e ti urtano con i loro zaini, girandosi di continuo a destra e pure a sinistra senza mai chiedere scusa o mostrare di essersi anche solo accorti dell’impatto [degli impatti]. A fila ferma immobile. Quando finalmente, passo dopo passo, hai percorso il piccolo corridoio nel quale ti trovi e giri l’angolo e sotto di te vedi una scala che porta ad una enorme sala con i corridoi della coda creati artificialmente per mezzo di separatori a nastro, sbarri gli occhi. Un serpentone umano che ti farà stare in piedi oltre due ore prima di tornare alla libertà. Per una procedura di minuti tre nella quale ti fotografano il viso, ti prendono un paio di impronte digitali e ti chiedono se hai con te dei contanti. Sarà la sicurezza, sarà quello che vi pare, ma anche che cazzo.

I controlli sono troppi e te li fanno ovunque. Togli lo zaino, metti lo zaino, via la cintura, posa il cellulare, cosa hai in tasca, entra nello scanner, tira su le mani, stai fermo, ora fai la giravolta. In aeroporto e anche nei musei, all’ingresso delle torri panoramiche, in tutti i luoghi aperti al pubblico. File e controlli. Il peggio, ovviamente, si raggiunge negli aeroporti, dove non ti devono vendere niente e allora devono fare passare il tempo. Non hanno nessuna fretta. Per i controllori sei un potenziale terrorista e ti trattano come tale, togliendo o mettendo i tuoi oggetti personali nella tua borsa come se fosse la loro. Mica sei americano, tu. Loro sì e sono anche parecchio stronzi.

Lo skyline è bello da qualunque parte lo si guardi. Impressionante. Sia che si arrivi a Manhattan da un ponte di collegamento, sia che lo si veda dall’Hudson o da un battello. Di notte è anche meglio.

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Per arrivare a Manhattan ci sono diversi ponti. Il più famoso è quello di Brooklyn che porta, guardunpò, a Brooklyn. Poi c’è il Queensboro che porta a Queen’s, il ponte di Manhattan che porta a Manhattan [da Brooklyn. Ma anche viceversa, immagino lo abbiano chiamato così per par condicio], il ponte di Verrazzano [che non porta a Verrazzano e in realtà non tocca Manhattan ma Brooklyn e Staten Island]. Quello di Brooklyn è vietato ai camion: solo auto, con una sopraelevazione centrale percorribile a piedi o in bici e che è sempre affollatissima.

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Grattacieli, case, uomini. La sensazione di essere un lillipuziano in una città fuori misura. Vale per i grattacieli e vale anche per le case più basse, che in centro non di rado sono dei monoliti di oltre dieci piani. Alla dimensione si aggiungono i materiali usati per la costruzione, materiali spesso riflettenti come vetro e ferro, per cui l’effetto ottico è amplificato in tutte le direzioni.
I newyorkesi camminano spediti, incuranti di quello che li circonda, con il loro cappuccino da passeggio in una mano e la borsa da lavoro nell’altra. Hanno una meta, loro. Tu no: testa in alto e camminare.

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E se per caso non ci sono grattacieli nella strada dove ti trovi, basta svoltare l’angolo ed eccoli, dinosauri postmoderni di vetro, ferro e cemento che escono dalla boscaglia.

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Il traffico è meno peggio di quello che credevo. Molti taxi, molto più numerosi rispetto all’Italia. Sono gialli, verdi, neri. Quasi tutti i taxi portano sul muso il marchio Toyota, in spregio a Ford, l’inventore della catena di montaggio. La nuova frontiera ha nazionalità giapponese ed è ibrida termico/elettrica.
I tassisti guidano alla cazzo, cambiando corsia senza freccia come meglio gli conviene. Le loro automobili avrebbero [tutte] bisogno di una revisione e sembrano contenere le loro case, con oggetti personali, bottiglie vuote, giornali spiegazzati e sacchetti di patatine dispersi nell’abitacolo. Gli ammortizzatori sono scarichi e le buche, con buona pace dei romani, ci sono anche qui.

Orientarsi a Manhattan è facile. Le strade hanno per lo più numeri progressivi e sono perpendicolari tra loro. Quelle orizzontali sono le Streets, quelle verticali si chiamano Avenue.

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Sono strade larghe, anche a tre corsie, quasi sempre a senso unico. I semafori consentono l’attraversamento pedonale con il classico omino stilizzato, però qui è bianco e grosso. Lo stop invece è segnalato da una manona aperta, rossa. Tutti usano il clacson, abusandone. Molte auto circolano con una protezione di gomma, come un tappetino, a coprire i paraurti.
Non ci sono vigili, a parte quando piove o negli orari di punta, e non sono vigili ma poliziotti. Contrariamente ai tassisti, la polizia usa solo auto americane, principalmente Ford e qualche Dodge.

Nelle strade principali di Manhattan e nelle vetrine dei negozi si vedono tabelloni elettronici di ogni dimensione che proiettano veri e propri video. L’uso della carta a scopi pubblicitari a New York è ridotto al minimo. A Times Square, che è il posto più brutto di NY, ci sono, contemporaneamente: persone ammassate in grumi umani, auto che suonano il clacson, rumore variogenere, musica variogenere, ragazzi neri che improvvisano balletti e/o cercano di venderti cd, l’Hard Rock Cafè, persone vestite da Statua della Libertà o da supereroi Marvel o da Pippo Pluto Topolino Minnie, ragazze in mutande con il corpo e le tette dipinte con i colori della bandiera USA e, appunto, enormi schermi luminosi pubblicitari. C’è Rosario Dawson che pubblicizza una sua linea di abbigliamento. C’è Serena Williams che gioca a tennis contro una avversaria immaginaria indossando auricolari ipersupermega tecnologici.

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Pare che nella settimana santa sia festa in Spagna. E pure noi con il 25 aprile abbiamo avuto la possibilità di fare ponte. Fatto sta che la città era piena di turisti spagnoli e italiani. Entrambi insofferenti alle code.

La cosa bella del Museo di Storia Naturale sono i dinosauri. Tanti, grossi, enormi. Il tirannosauro, il triceratopo e i loro fratelli, con il titanosauro che ha la testa in una stanza e il corpo nell’altra. Il Museo è pieno di diorami ed è chiaramente studiato per la didattica, adatto sopratutto ad un pubblico di bambini e liceali. In particolare le esposizioni temporanee, che si pagano a parte, sono pensate per un pubblico sotto i diciotto anni. Io ho visto quella del tirannosauro perché non sapevo di essere sotto i diciotto anni.
Momento clou della visita: sotto la statua dell’Isola di Pasqua, davanti alla quale tutti i ragazzi si fanno fotografare [scemoscemo, gommagomma].
C’è troppa gente, ci sono troppi bambini, c’è troppo poco spazio. In Italia abbiamo norme di sicurezza che impedirebbero l’ingresso a una massa simile di persone.

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In meno di diciotto anni il World Trade Center è rinato.

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Ci hanno costruito il One World Observatory [tempo complessivo impiegato: anni 6 più uno per l’antenna], il museo del 9/11, due grandi fontane incassate nella piazza nei punti dove sorgevano le due torri e l’Oculus di Calatrava [che è una stazione della metro con un centro commerciale. Inaugurata nel 2016, da fuori è un occhio bianco con lunghe ciglia mentre dall’interno è il ventre di Moby Dick. O della balena di Pinocchio?].

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L’Observatory consente una vista a 360 gradi sulla città ed è ad oggi la sesta torre più alta al mondo, la più alta dell’emisfero occidentale.

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Le fontane nella piazza sono un pugno alla bocca dello stomaco. Di colore grigio scuro, riportano sul parapetto di appoggio i nomi dei morti. Incisi. Sono fontane enormi e anomale: quadrate, con l’acqua che non zampilla ma scivola giù dalle pareti laterali, defluendo in un un buco centrale. Difficile descrivere l’effetto che fa, tra colori e suono cupo dell’acqua. È una mancanza in forma di fontana, una privazione che non ferma il fluire del tempo.

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Il museo è inutile, almeno per un occidentale non statunitense. Come andare al cimitero a visitare le tombe. Qui alle foto di chi è morto si aggiungono: la visione delle fondamenta delle torri, le proiezioni di frasi che forniscono piccole e sommarie informazioni sulla vita delle vittime, la raccolta di reliquie [i pattini con i quali un’impiegata veniva al lavoro, una bandiera, un frammento di scale], gli audio dei parenti che nominano i loro cari morti. Per un americano è probabilmente una visita che fortifica il senso di appartenenza agli USA. Massimo rispetto però io non sono americano.

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Se l’Empire State Building è un simbolo solo di New York, la Statua della Libertà è patrimonio di tutti gli USA. Se ne sta su un’isoletta di fronte alla propaggine sud di Manhattan, in cima a un piedistallone, tutta verde. Non è male, sapete? Molto meglio dal vivo che non in foto.

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A Staten Island venivano condotti tutti coloro che arrivavano in America con le navi per essere controllati. Da qui coloro che non erano ritenuti degni di essere accolti negli USA venivano rispediti indietro. Vi ricorda nulla? Gli Stati Uniti sono stati costruiti dagli italiani, dai cinesi, dai russi, dagli irlandesi. Dai migranti. Partivano dalla loro patria, viaggiando per mare, perché in Italia si moriva di fame, in Russia c’erano i Pogrom contro gli ebrei, in Turchia gli armeni venivano impiccati. Per ricordarsi da dove sono venuti, gli americani a Staten Island hanno costruito un museo. Alle pareti ci sono foto che raccontano l’esodo da tutte le parti del mondo verso gli Stati Uniti, a testimoniare da cosa questi poveracci scappavano, cercando una vita migliore o semplicemente la sopravvivenza.

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Ci sono anche i disegni satirici che raccontavano i timori di chi credeva che l’America sarebbe stata invasa dalla malavita italiana o russa o cinese, che avrebbe distrutto il Paese. Non è andata così e se oggi New York è abitata da milioni di persone è perché è stata costruita con le mani di chi è arrivato da fuori, persone che sono rimaste lì, vi hanno messo su famiglia, hanno imparato l’inglese, hanno continuato ad abitare la città. Questo museo, dal quale non mi aspettavo nulla [e invece], è il luogo giusto dove venire a ripassare la storia quando si è così stronzi da pensare che sia giusto chiudere i porti, che sia giusto finanziare la Libia. Quando si è così stupidi da ridurre il proprio pensiero a primagliitaliani.

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La maggiorparte del viaggio si è svolta a piedi. Oltre venti km di scarpinate pedantibus di media giornaliera. È faticoso ma si vede molto di più. Ho perso oltre due chili e mezzo in una settimana.

New Yoerk è il regno del “lurido”. Bancarelle che vendono cibo ovunque. Principalmente hot dog e bretzel, e questo lo sapevo, ma alcune preparano anche piatti unici con pollo o manzo, riso e verdure. Le fette di petto di pollo vengono buttate su una grande piastra di metallo, dove fumano sfrigolando e vengono tritate grossolanamente con una simil-cazzuola. All’angolo con la 6th Avenue ci sono delle panchine dove gli avventori di questi ristoranti ambulanti si siedono verso sera a consumare quella che temo sia la loro cena, una volta finito di lavorare.
Molte strade di New York, con particolare attenzione a quelle dove si cucina cibo orientale [la 42nd street è la Korean Way], conservano un invincibile odore di intingolo.

Chipotle è una catena di cibo messicano, burritos e tacos e altre amenità. Ho preso un burrito, che puoi farti riempire come vuoi. Solo che devi essere velocissimo, perché c’è la coda in questa catena di montaggio di chipotle [suona meglio di burrito]. Il vero fast food. Nonostante l’ampia scelta di ingredienti, qualunque cosa sceglierai di mettere nel tuo chipotle il gusto sarà lo stesso e ti perseguiterà per il resto della giornata. Hai pensato di metterci del riso per contrastare l’effetto peristaltico del chipotle? Sei un illuso.

Ci sono due o tre catene che scimmiottano la colazione europea o, meglio, francese. Una è Paris Baguette [non ridete] dove, in verità, lo yogurt con banane, miele e pecan non è male e dove pure i cornetti sono migliori di quelli del 90% dei bar di Torino. Anche 95%.

Un altro fast food è Pick a Bagel, specializzato, va senza dire, in bagel. I bagel sono quelle ciambelle salate dal gusto vario [cipolla, integrale, cereali, etc.] tipicamente crude all’interno e farcibili variamente [pomodori, burro di arachidi, avocado, pancetta, creme di formaggio multicolorate]. Qui ho bevuto, non senza fatica, il caffè espresso peggiore di tutta la mia vita.

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La specializzazione delle zone, e ancora di più delle strade, è una cosa che colpisce. C’è la strada del cibo coreano, come detto, il distretto dei diamanti [sulla 47th Street, la strada delle gioiellerie], il quartiere della moda [Soho], quello dei teatri [Broadway] e così via. Moltissimi i negozi, New York è una città dove tutto può essere acquistato con facilità. Eppure è una città piena di barboni, gli homeless. Più numerosi ad Harlem e nei quartieri meno ricchi. In centro a Manhattan sono sporadici ma tutt’altro che rari. Se ne stanno in un angolo, su una panchina, seduti per terra.

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La metropolitana qui si chiama così Subway: sotto la strada. A Londra la chiamano Underground: sotto terra. Le stazioni sono numerose e la metro è sicuramente il mezzo migliore per muoversi, il più veloce e il meno costoso. La metropolitana non ha nulla di moderno. Lo aveva quando fu costruita, indubbiamente. Oggi è un vecchio modello di treno sferragliante che corre su vecchi binari attraversando vecchie gallerie, tra banchine più o meno piccole e travi di ferro. Eppure è tremendamente funzionale. Lo stesso dicasi per i bus del trasporto di superficie, che dimostrano la mia età.

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Le biglietterie sono di due tipi: automatiche o umane. Quelle automatiche consentono di acquistare un biglietto alla volta e non sempre funzionano con la carta di credito [only cash]. Quelle umane vivono in gabbiotti ermeticamente chiusi e non accettano carta di credito [only cash].

La funzionalità è la parola d’ordine, tangibile ovunque. Ma non sempre la funzionalità si accompagna alla perfezione tecnologica ed estetica. Da un lato ci sono gli enormi schermi pubblicitari di Times Square, dall’altro ci sono gli scarichi dei cessi. Questi hanno una forma a torretta, con una leva laterale da azionare manualmente e sono esterni, mai murati: visibili, riparabili senza spaccare il muro. Anche gli interruttori della luce non sono pulsanti di ultima generazione bensì anacronistiche levette. Ovunque, dai bar ai ristoranti agli aereoporti. Questo fatto mi ha ricordato che nei palazzoni newyorkesi dei film c’è sempre un inquilino che funge da riparatore factotum, pronto a ogni evenienza.

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Altra cosa presente in gran copia a New York sono i musei d’arte. Come il MOMA, il museo di arte moderna che sta in centro a Manhattan. Nelle collezioni si trovano almeno due quadri che hanno fatto la storia dell’arte moderna: Les Demoiselles d’Avignon di Pablo Picasso e La Danse di Henri Matisse.

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C’è anche un enorme Monet, dipinto su tre grandi tele e così disposto, un trittico che ha un effetto quasi tridimensionale: sono le sue ninfee e sono un capolavoro anche per me che non sono da tempo più appassionato di impressionismo. [Qualcosa del genere si può vedere anche a Parigi, dono del pittore alla città e alla Francia]. C’è un Hopper, ci sono un paio di grandi Rothko, un grande Pollock, una bandiera di Jasper Johns, Speranza II di Klimt. E Leger, e altri Picasso, e Mirò, la Notte Stellata di Van Gogh. C’è anche Il Sogno di Rousseau, che nel mio quore sarà sempre la copertina di Teresa Batista Stanca di Guerra, uno dei romanzi della mia vita. Al terzo piano, vicino alle scale, potete vedere Il Mondo di Christine, di Andrew Wyeth.

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Top Of The Rock è il tetto del Rockefeller Center dal quale si gode una gran vista su tutta Manhattan. Quando ci sono salito io non c’era il sole e il cielo era plumbeo, ma l’effetto è stato lo stesso notevole. Anche per entrare qui controlli e controcontrolli, con sfilamento di cinture e scannerizzazione di zebedei.

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Little Italy e Chinatown sono due quartieri confinanti divisi da una strada. Attraversi e le insegne dei negozi dall’italiano diventano ideogrammi. Sono due quartieri che mi sono sembrati dei perdibili ciapa-ciapa, con Chinatown un po’ meglio perché qualche negozio, principalmente pescherie e negozi di articoli prettamente cinesi, offriva merce più interessante e più caratteristica rispetto a quelli a Little Italy. Ad esempio vendevano delle piccole tette di gomma con tanto di capezzolo da usare come antistress. Però non sono sicurissimo che fossero proprio caratteristiche cinesi.
A Little Italy ci sono molti ristoranti. Sono passato davanti a un dehors dove una famiglia stava pranzando. Il padre, che Iddìo lo strafulmini, stava inserendo la sua forchetta nel grumo di spaghetti che aveva nel piatto [condimento: bolognese] mentre con la mano destra impugnava il coltello. E non vi dico altro.

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Ci sono quartieri che si chiamano con crasi di parole. Nolita è North of Little Italy, Soho è South of Houston [Houston è una strada], Tribeca è Triangle Below Canal Street. La cosa positiva di avere le strade numerate è che di fatto non ti serve una cartina per girare e non perderti. Sai che le street sono orizzontali e salgono e che le avenue sono verticali e vanno da destra a sinistra. Ovviamente con me è tutto inutile e infatti mi sono perso dalle parti di Canal Street. Pur avendo una cartina.

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Ci sono tanti murales, ovunque, basta camminare e alzare lo sguardo. Ce ne sono di belli, anche sulle saracinesche, al WTC oppure a Brooklyn ma anche sulla Bowery o nell’East Village. Uno di quelli che mi sono piaciuti di più era dalle parti dell’East Side, dedicato a Michael Jackson.

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L’East Village è attraversato dalla 1st Avenue. Le case sono giustamente basse, molte in mattoni rossi, e nelle vie laterali hanno le scale in pietra con le ringhiere in ferro che conducono al portone di ingresso. Come nei film di Woody Allen o in Harry ti presento Sally. Case simili si vedono al Greenwich Village, ad Harlem e in altri quartieri lontani dal centro, dove tutto è invece più grande, compatto, alto.

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Di Brooklyn posso dire poco, ci sono solo passato. La parte che si trova sotto l’omonimo ponte è molto bella, piena di vecchi magazzini e di vecchie fabbriche riconvertiti a centri commerciali e negozi. Si passeggia bene anche grazie a strade poco trafficate. C’è un flea market, il Brooklyn Flea, in un tunnel proprio vicino al parco.

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I famosi playground esistono davvero. Ce ne sono molti, non in centro. Vi si gioca a basket, e i giocatori sono molto scarsi, oppure a freesbee oppure a una sorta di pelota cinese. A Central Park ci sono anche campi da softball con piccole tribune dove giocare in mezzo al verde e sotto lo skyline.

Vale la pena anche farsi un giro al negozio della NBA per ammirare qualche cimelio sportivo, considerare che le magliette costano uno stonfo e realizzare che le felpe con la cerniera, le più comode di tutte, non le fabbrica più nessuno.

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I poliziotti di New York sono quasi tutti grassi. Botolotti che non riuscirebbero a rincorrere un barile di lardo. Sarà la vita sedentaria, sempre in auto o fermi. Ma per dirigere il traffico vanno bene.

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Tutto il contrario dei pompieri, i fieri membri del FDNY. Loro sì, sono efficientissimi. Arrivano a sirene spiegate [le sirene di polizia e pompieri si sentono anche se in auto hai la radio a palla], saltano giù dai mezzi e intervengono. Abbiamo assistito a un intervento in una strada. Era esploso un tombino, abbiamo saputo dopo. Fosse successo a Torino ci sarebbero ancora le transenne attorno al foro.

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Le tipiche ragazze bionde wasp sono carine. Ma le nere. Mioddìo. Le ragazze nere sono un qualcheccousa.

A New York puoi vestirti come ti pare senza che nessuno si stupisca o ti prenda in giro. Puoi metterti gli short e le scarpe aperte con le zeppe anche se sei un maschio di ottanta chili. Puoi andare in giro con una collana d’oro più grossa della catena che uso io per la bici. Puoi avere il collo pieno di tatuaggi e piercing su naso, narici, sopracciglia, guance. Puoi metterti un paio di pantaloni con winnie pooh anche se hai ottantanni. Puoi indossare una maglietta aderente color carne sopra il reggiseno bianco con i pantaloni azzurri e i mocassini anche se sei un ragazzo di ventanni. Nessuno ti dirà nulla, nessuno ti sfotterà. Tutto è normale.

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Mancano, in centro, i bidoni della spazzatura per le attività commerciali. I sacchi di monnezza di grosso calibro vengono lasciati davanti ai negozi, a bordo marciapiede. Di sera o notte passeranno dei grandi camion a raccoglierli. Ora immaginate Mc Donald’s di Piazza San Carlo con una dozzina di sacchi neri davanti, tutti ordinati e ben chiusi. Fatto?

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Ho scattato una buona metà delle foto senza avere prima pulito l’obiettivo. Mi faccio i complimenti da solo.

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Non so se ho detto prima quanto siano meravigliose le ragazze nere.
Ma le orientali. Uh, le orientali.

Carne e uova sono gli ingredienti principali di qualunque piatto. Uova al bacon, strapazzate, in crema, sode, come vi pare.

Quando visito un posto che non conosco la mia prima curiosità va alla cucina. E come si mangia a New York? Si può mangiare male ma si mangia anche molto bene se si vuole farlo. Tutte le cucine del mondo sono rappresentate. E non esagero: tutte. Mi sono affidato a qualche consiglio di esperti [in particolare Stefano, che ringrazio ancora].

La cucina americana tradizionale non mi sembra così interessante, bistecca a parte la ho evitata.
Al Noodle bar di Momofuku ottimo il panino ai gamberi piastrati, con pane bao e una salsa piccante il giusto, persistente e non invadente.
Shake Shak è una catena di hamburger, un fast food. Però la carne è buona e il panino, classico da hamburger, è pure un po’ unto. Insomma, ci fosse anche qui mi farei crescere volentieri qualche brufolo sul naso di tant’in’tant.
Il cibo da strada è ben rappresentato da una sorta di manifestazione itinerante che propone un pò di tutto. Si chiama Smorgarsburg e il venerdì è al WTC mentre il sabato e la domenica si svolge in alcuni parchi. Ci sono cose buone e cose così così, ma vale la pena farci un giro.
Poi a Chinatown ho mangiato bene pagando poco [per piatti enormi] da Nom Wah Tea Parlor, ristorante cinese come qui non ci sono più. Non si prenota: si arriva, si dà il nome e si aspetta. C’è anche una versione più figa e più cara a Nolita, che si chiama sempre Nom Wah.
All’Oyster Bar della Central Station mi sono fatto un quasi obbligatorio lobster e ho mangiato ostriche di due tipi: ne hanno una buona selezione a prezzi convenienti.
Altri ristoranti/bistrot/bar consigliati da amici o erano chiusi per incendio, o erano pieni o non li abbiamo trovati: cito Ichiran e Mandoo Bar e Made Nice e Jacob’s.

Molti ristoranti, bar e gastronomie si vantano di fornire prodotti organic. L’organic va molto, anche in alcune catene di fast food. Tuttavia tutte le stoviglie sono monouso, dalle forchette ai piatti.

Come si raccolga la plastica non mi è chiarissimo. Ci sono cestini per l’alluminio e per l’indifferenziato. Ma la plastica? Nei fast food ho visto che la buttano come indifferenziata. Ma ho anche visto qualcuno andare in giro trasportando grossi sacchi pieni di bottiglie di plastica vuote. E in effetti al supermercato ho comprato una bottiglia d’acqua e mi hanno caricato 5 cent di deposito cauzionale. Li restituiranno a chi porta indietro le bottiglie? Chi sa parli.

Detto delle uova, c’è la carne. Ovviamente tutti consigliano di andare da Peter Luger. Il quale tuttavia consente di prenotare solo online e di pagare solo in contanti e allora ciao.
Sono passato per caso davanti a Gallagher. Una vetrina, come di un piccolo negozio, con tutte le costate esposte, a decine. Luce accesa, in pratica è l’interno di un grande frigo. Una cosa che non mi è piaciuta, forse ipocritamente, ma chissene. Mentre guardiamo le bistecche esce un tizio e dice a Gio’: fatti un selfie con tuo papà davanti alla vetrina, la gente viene qui a mangiare la nostra carne da tutto il mondo. Non ne dubito, ma niente selfie e alla fine siamo andati da Keens [guarda caso, nome che evoca l’Irlanda], che è un posto per ricchi bianchi wasp arredato come un locale dell’’800, con le pipe di legno appese al soffitto e con camerieri neri, asiatici, etc. Come si conviene.
So che la bistecca quando sta sul chilo viene di norma condivisa. Se non si è egoisti come me.

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Sulla discriminazione razziale si potrebbero dire tante cose. E le direi, se fossi un sociologo. Non lo sono e pertanto posso solo limitarmi alle impressioni. Intanto c’è una discriminazione basata sul censo, nel senso che certi prezzi [e certi luoghi] te li devi poter permettere. Certo, non sono ricchi solo i bianchi, ma non credo sia una caso che certi locali siano frequentati solo [o in prevalenza] da bianchi. D’altra parte il presidente pro tempore negli USA è un conservatore, è razzista ed è misogino e alle ultime elezioni raccattò parecchi voti.

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Potrei mangiare ogni giorno, alternativamente l’uno o l’altra, ma devo ancora capire la differenza sostanziale tra Ramen e Soba.

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Tutti i ristoranti hanno in vetrina un foglietto con una lettera maiuscola ben visibile. Rappresenta il voto che l’ufficio di igiene dà alla loro cucina. Ecco. Io entro solo dove c’è la A.

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New York, se ti piace l’arte moderna e contemporanea, è un luogo di perdizione. Al Metropolitan Museum, per gli amici MET, puoi perdizionarti tanto da rincretinire e non hai nemmeno bisogno dell’arte moderna, ché qui c’è la qualunque. Il guaio del MET, oltre all’affollamento eccessivo, è la distribuzione delle opere. Invece la vastità di argomenti [antico Egitto, Cina, Paesi Arabi, scultura, pittura, arte moderna, impressionismo, armature antiche, etc.] è affrontabile grazie alla lungimiranza di un biglietto di ingresso che può essere sfruttato per tre giorni consecutivi. Il difetto, invece, sta proprio nella disposizione delle stanze, almeno per quanto riguarda la pittura dall’’800 in avanti [che è quella che piace a me]. Un blocco rettangolare di sale con accessi su ogni lato, senza un ordine né logico né cronologico. Spostandoti da una sala all’altra puoi passare da Corot a Van Gogh, da Klimt a Cezanne, da Gauguin ancora a Corot [una intera sala dedicata a Corot. Mah]. E poi ancora. Il caos. Quando poi scendi al piano di sotto e chiedi dove puoi trovare Forme Uniche Nella Continuità dello Spazio, la risposta della gentile signorina è: “Sorry, it’s closed”. [Mannaggia a o’Vesuvio].

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Nei musei di New York si può quasi sempre fotografare, senza flash, e tutti lo fanno. Lo faccio anche io, con la consapevolezza che sarà impossibile rendere l’esperienza di guardare un’opera dal vivo. Non è solo questione di colori o di qualità dell’immagine. Provate.

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L’importante è non limitarsi a fotografare. La fotografia può servire per rievocare in un futuro più o meno prossimo l’esperienza vissuta. Ma se non poniamo la necessaria attenzione [concentrazione] quando siamo davanti a un quadro otterremo un esperienza vuota e il nostro fotografare resterà un gesto meccanico che avrà come esito un file che non riguarderemo mai.

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Naturalmente scattare foto in un museo può anche servire, a me, per fare il minchione.

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Oppure per ingrandire una mano.

La tazza del Guggenheim fu un colpo di genio del vecchio Frank Lloyd Wright. Purtroppo all’interno, sulle rampe che salgono o scendono a spirale, ci ho trovato una mostra temporanea che esponeva quadri di una pittrice della quale non ricordo il nome e che mi hanno fatto cagare tutti. Per fortuna erano invece visitabili la collezione Thannauser [con un notevole Kandinsky, un notevole Picasso, un notevole Gauguin: la trovate a Milano fino al 01 marzo 2020] e una inattesa mostra su Mapplethorpe [Implicit Tension] che mi hanno ampiamente ripagato del tempo trascorso sulle rampe.
A proposito di sicurezza: negli Usa ti scannerizzano anche i peli del naso, ma i parapetti delle rampe al Guggenheim mi arrivano a mezza coscia.
Frase del giorno: Uh, sembra il Lingotto.

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Da quando ho un frigo amico delle calamite compero magneti ovunque vada e ce li attacco con grande soddisfazione. Piccoli piaceri maniacali.
[Il Mondo di Christine di cui dicvevo sopra è il magnete in alto a destra].

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Mapplethorpe è stato il più grande fotografo di fiori mai vissuto. Diceva: “My approach to photographing a flower is not much different than photographing a cock. Basically, it’s the same thing… It’s the same vision”.
Esatto, Bob. Esatto.

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Il tempo a New York è variabile. Piove dopo una giornata di sole, c’è il sole dopo una giornata di pioggia. Giri l’angolo e vieni investito da una raffica di vento, ne giri un altro e torna la calma. Le previsioni meteo non sono attendibili, chiunque le faccia. Va però considerato che le previsioni per Central park sono diverse da quelle per Battery Park [a sud: qui partono i traghetti per la Statua della Lbertà].

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Ad Harlem c’è l’Apollo Theater, nel quale puoi entrare solo se vuoi comprare una maglietta con la scritta Apollo o per assistere a un concerto. Ascoltare un concerto a New York mi sarebbe piaciuto, al Blue Note e al Lincoln Center c’era jazz interessante, tra cui Branford Marsalis. Anche vedere uno spettacolo a Broadway non deve essere male, avendo una conoscenza della lingua inglese migliore della mia. Vabbeh.

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Tornando a Harlem, ci sono zone belle, con case basse, e zone brutte, con case basse. Siamo arrivati fino a Malcolm X Boulevard, che è un enorme stradone che costituisce una specie di frontiera. Eravamo gli unici bianchi. Su Malcolm X Blvd è facile incrociare persone sotto l’effetto del crack, giovani o meno giovani.
La povertà è palpabile anche quando ti imbatti in quei cortili chiusi con una grata metallica, con erba alta, spazzatura e auto parcheggiate. Manhattan sta dall’altro lato di Central Park ed è un’altra città.

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Ad Harlem c’è anche la St. John’s Church. Che è brutta come tutte le chiese della città. Chiese senza uno stile, una accozzaglia di generi tra il gotico e il salcazzico. Questa però ha un oratorio sotterraneo, con campi da basket e da altri sport, un centro congressi, biblioteca e altro. È la chiesa come dovrebbe essere, un centro per la comunità.

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“La mancia la lascio se proprio se la meritano. Se proprio si impegnano al massimo lascio un piccolo extra. Ma lasciarla solo perché si deve è una stronzata”. Così parlò Mr. Pink. In realtà le mance, i tip, sono volontariamente obbligatorie, qui come in altri Paesi di lingua o tradizione anglosassone. E se ne Le Iene si parlava di una mancia del 12% per le cameriere dei diner, a New York il minimo sindacale sta tra il 15 e il 18%. Molti locali indicano già nel conto la mancia suggerita. Quale sia la logica in base alla quale in alcuni locali si dia la mancia e in altri no [ad es. i fast food] non so proprio dire.

Central Park è un parco molto grande. Con laghetti, ampie piste ciclabili e playground per lo skateboard e il softball. È un parco. Molto grande. Un parcone.

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Hop on – Hop off è il sistema dei bus turistici che fanno i loro percorsi in città. Ha due funzioni. La prima è quella di farti familiarizzare con le diverse zone, e un giro appena arrivati in città è utilissimo in questo senso. La seconda è quella, banale, di portarti in giro. Il servizio di descrizione dei luoghi fruito con le cuffiette è molto basico, però puoi scegliere la lingua. Credevo che fossero più lenti negli spostamenti, invece no.

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Per entrare nei negozi, negli alberghi e in generale nei luoghi aperti al pubblico ci sono le porte scorrevoli, ma sopratutto le porte girevoli. Di nuovo, come nei film. Le porte tradizionali, tipiche dei locali più piccoli, funzionano tutte allo stesso modo: tirare per entrare [pull], spingere per uscire [push]. Non ho mai fatto una singola volta l’azione corretta.

Se le ear pods della Apple da noi vanno per la maggiore, qui sembra siano una dotazione necessaria e indispensabile alla deambulazione di ogni essere umano tra i venti e i quaranta anni di età. Non so chi le indossa cosa senta di quello che succede nel mondo reale. Non so se sia interessato al mondo reale.

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La zona di Chelsea che inizia sul fiume Hudson è piena di vecchi magazzini riconvertiti ad attività commerciali. Le strade sono lastricate con grosse pietre, come nel film di Sergio Leone, i magazzini sono diventati negozi o grandi centri commerciali. Chelsea Market è probabilmente il più famoso, quello che chiunque ti consiglia di visitare. In effetti c’è molta offerta, anche di qualità. Ci ho mangiato un paio di ottimi hot dog, uno classico e l’altro con salsiccia di maiale, da Dickson’s.

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In molte città i mercati metropolitani sono diventati una moda. A Madrid ce ne sono diversi, a Lisbona ce ne è uno molto bello. A Torino, fallito il progetto del mercato di Porta Susa, abbiamo da poco il Mercato Centrale di Porta Palazzo. Bella idea, che recupera uno sfortunato edificio made in Fuksas [e quando mai] che era rimasto abbandonato, ma i risultati sono per quanto mi riguarda molto scarsi.

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Grand Central Station è la stazione dove coppie di passanti ballano il valzer nel Fisher King di Terry Gilliam. Con l’orologio nel mezzo.
[Let’s dance].

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Soho è il quartiere a sud di Houston Street.

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Case bellissime, prezzi alti anche in affitto. Si passa di qui sopratutto se si è interessati a moda e design. Ci sono molti negozi e si incontrano fotografi che si aggirano per le strade fotografando le loro modelle.

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Sarebbe utile andare a New York con la valigia vuota per rifarsi il guardaroba. Specialmente quando il dollaro è debole. Ci sono negozi di nicchia ma anche tanti monomarca con prezzi molto convenienti. In alcuni negozi, come Levi’s o Champions, puoi farti personalizzare un giubbotto di jeans o una felpa viola facendovi aggiungere una scritta o un ricamo. Venti minuti, un piccolo extra ed è tutto pronto.

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Nel progetto di riqualificazione delle zone industriali della città, una parte importante la gioca la High Line, una passeggiata pedonale sopraelevata che occupa lo spazio di una vecchia ferrovia. Intorno, le fabbriche sono diventate resort o uffici. Si sta ancora costruendo parecchio, come si intuisce dal braccio meccanico verde che appare nella foto qui sotto [scattata dalla High Line]. Vale la pena farci una passeggiata rilassante.

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Ovunque ci sono tulipani nelle aiuole. New York prima di essere venduta agli inglesi dagli olandesi e diventare così New York era New Amsterdam.

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Curb your dog. Sta scritto sulle targhette apposte sui recinti che circondano gli alberi sui viali. Non sono recintati con una grata flessibile, ma con cancellate in miniatura di ferro smaltato di nero. Immaginate un cane non curbato che ci sbatta il grugno contro.

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Washington Square è la sede di una grande parco dove le persone si incontrano, prendono il sole, suonano. C’è una grande fontana al centro ed un grande arco, piuttosto famoso. In tutta la città ci sono molti parchi e giardini tenuti molto bene che costituiscono punti di ritrovo e di incontro.

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Altra piazza che gode di giusta fama è Union Square, sede anche di un mercato di prodotti naturali, organic o roba similare. Farine, radici, torte salate, focacce alla cipolla untissime, biscotti. E poi ci sono dei ragazzini in bici che sfrecciando ti rubano il cappello e scappano ridendo come il vento [il vento è un gran mattacchione, si sa]. Ci sono anche gli scacchisti, uomini di colore che ti sfidano a partite a scacchi, ovviamente a pagamento. Uomini duri, uomi rudi, uomini veri. Dice una guida: statevi accorti agli scacchisti di Union Square.

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New York è una NO city. Sospetto che sia una caratteristica generalizzata degli USA. Di sicuro si resta colpiti dal numero dei divieti. Qui prima di tutto devi sapere cosa non puoi fare. La cosa strana è che, a parte il traffico che come detto è abbastanza indisciplinato, tutti si attengono alle regole. Se non si può non si può, inutile discutere e infatti nessuno lo fa: c’è una regola e tanto basta. Così intere zone della città sono marchiate con divieti di fumare affissi sui palazzi. Così i semafori non si limitano a chiederti di fermarti con un banale colore rosso, ma utilizzano una grossa mano aperta stilizzata. Così i nuovayorkesi non ti rubano il posto nella fila che stai facendo [gli spagnoli sì. I napoletani si limitano a spingerti]. D’altra parte senza regole sarebbe impossibile permettere a otto milioni e mezzo di persone di occupare contemporaneamente la stessa città.

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L’ora di punta arriva di colpo, quando chiudono gli uffici. Tutti corrono. I lavoratori si riversano in strada e nessuno cammina, sono tutti di fretta. Invadono gli accessi alla metropolitana, corrono dentro le stazioni per tornare a casa. New York è una città che corre e non c’è corsa più veloce di quella di chi ha finito di lavorare.

Una delle contraddizioni più strane: un sedicenne è ritenuto idoneo a guidare un’auto, ovvero un blocco di metallo su ruote pesante anche qualche quintale che colpendo in velocità un altro essere umano potrebbe facilmente portarlo alla morte, mentre non può assaggiare nemmeno un sorso di birra finché non compirà 21 anni. Di più: per sedersi al bancone di un bar dove si servono alcolici, anche per bere una semplice diet coke, è necessario avere almeno 21 anni. Per sedersi. Il che pone dei problemi quando ad esempio vuoi andare a farti un cocktail su un roof top dotato di bar e hai un figlio sotto i ventuno.

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Il rumore delle chiacchiere nei dehors. Camminando per le strade, intorno alle 18, può capitare di sentire un brusìo. Mano a mano che avanzi l’intensità del rumore cresce. Finché non arrivi alla fonte: un bar aperto sulla strada. Tutti i tavoli sono occupati, tutti parlano ad alta voce. Tutti ridono, tutti bevono.

Sì, perché gli americani non parlano normalmente: urlano.

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Altro luogo di socializzazione post ufficio sono i pub. Io sono stato al Connolly’s. Avevano molte birre alla spina, una quindicina, ognuna con il suo braccetto personalizzato per spillare. Nel bagno, le cui porte avevano per maniglie quegli stessi braccetti, ho potuto ascoltare una classica versione di Take 5 mentre espletavo una certa pratica.
A New York ho bevuto solo birra, ne fanno di ottime, evitando del tutto il vino. Un po’ perché non conosco che pochi vini statunitensi, un po’ perché quei pochi che sapevo decenti costavano dai cento dollari in su a bottiglia, un po’ perché smetto quando voglio.
Connolly’s è pub di stile irlandese [a volte ritornano], frequentato da una clientela wasp, con il legno per terra e alle pareti e l’hockey incessantemente trasmesso su grandi schermi.

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Questo qui sotto è il Flatiron, il ferro da stiro. Per me è l’edificio più bello di Manhattan insieme al grattacielo Chrysler. Io lo chiamo Flàtiron, all’italiana. In un ufficio all’ultimo piano c’è l’ufficio di James Jonah Jameson.

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Il Chrysler Building, terminato nell’annus horribilis 1929, per un breve periodo fu l’edificio più alto al mondo [superato poi dall’Empire State Buiding]. In Italia, nel Medioevo, l’altezza delle torri oltre ad avere una funzione di difesa serviva anche a dimostrare la potenza e la ricchezza delle famiglie che le abitavano. Le gare a chi ce l’aveva più alta alla lunga portarono a una serie di spiacevoli incidenti, con tanto di crolli e morti. La cosa, unita al fatto che abitare in verticale era piuttosto scomodo, fece sì che molti nobili decisero di trasferirsi in palazzi decisamente più bassi, compatti e abitabili. Non così a NY agli inizi del XX secolo. Il Chrysler fu eretto in contemporanea al grattacielo della Bank of America e tra gli architetti fu ingaggiata una vera e propria gara per il grattacielo più alto al mondo. Sembrava che avesse vinto la Bank of America, ma l’architetto di Mr. Chrysler, tale William Van Alen, aveva un asso nella manica: la guglia, costruita in gran segreto e issata e montata solo a grattacielo ultimato, in poche ore. Un’operazione difficilissima a quelle altezze, un capolavoro di ingegneria.

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Il presidente pro tempore è ovunque. Sulle magliette, sui cappellini, sulle spille, in forma di pupazzo nei negozi di souvenir. Tutto si gioca sulla ambivalenza tra l’odio, che fa vendere oggetti vari che riportano insulti anche pesanti contro il presidente, e la fiducia conservatrice che insegue il miraggio del Make America Great Again, slogan attorno al quale girò tutta la sua campagna elettorale. Il massimo si raggiunge con la cioccolata al latte con sopra la faccia di Trump. Immagino serva da rimedio contro la stitichezza.

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Non sono sicuro che la lingua ufficiale di New York sia l’inglese, perché molti abitanti non solo non lo parlano, ma capiscono solo lo spagnolo.

In molte strade ci sono ancora le due pesanti ante di ferro sul marciapiede, chiuse da lucchetti, che sono l’accesso alle cantine. Poco funzionale, specie se piove, molto romantico.

Come per i pub irlandesi e per Keens, a New York ci sono luoghi che sembrano fatti esclusivamente per bianchi anglosassoni. Uno è la Neue Galerie, il museo che si trova nel palazzo dove c’è anche il Café Sabarsky. A un personale multietnico [tranne biglietteria, negozio e guardaroba: solo bianchi] si accompagna un pubblico di utenti dall’età media decisamente elevata e indiscutibilmente WASP. Impressioni, ovvio. All’ingresso invece del biglietto ti danno un pin metallico da appuntare alla maglietta. Puoi restituirlo all’uscita e loro lo ricicleranno. [Io me lo sono tenuto]. In questo museo privato si possono ammirare oggetti art deco, mobili e orologi del primo novecento e quadri, principalmente di Klimt, Schiele e Kokoschka. Le pareti delle stanza sono rivestite in legno [le famose boiserie] e i quadri vi sono appesi per lo più ad minchiam: troppo in alto, con una poltrona anch’essa in esposizione [NON TOCCARE!] messa di traverso ad impedire una buona visione frontale, illuminati alla boia d’un giuda e così via. Il pezzo forte è il famosissimo ritratto di Adele Bloch-Bauer di Klimt [se non sapete qual è lo trovate su Google. Dopo potete anche dire: ah, ecco], che ha uno spazio dedicato. C’è anche una stanza con molti disegni esposti degli autori citati. In uno di questi, sempre di Klimt [titolo che non ricordo alla lettera, del tipo: “donna rivolta verso sinistra sdraiata su sedia”], c’è una donna che potrebbe benissimo essere la signora Bloch-Bauer, seduta su una sedia a gambe spalanche e intenta a solitario trastullo.

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La Neue Galerie nacque dall’amicizia e dalla passione per l’arte del primo novecento che legava il mercante d’arte Serge Sabarsky al collezionista Ronald Lauder [sì, è quello della Estée Lauder]. Il pezzo forte è il ritratto di Adele Bloch-Bauer, moglie del ricco industriale dello zucchero Bloch e, pare, amante di Klimt. Il quadro, requisito dai nazisti durante la guerra [i Bloch-Bauer erano ebrei] affrontò un lungo e complicato percorso giudiziario per finire, prima, nella disponibilità dell’erede designata, e poi in quella del museo, grazie alla spropositata quantità di soldi di Mr. Lauder. A New York c’è tanta arte perché ci sono tanti, tanti, tantissimi soldi. Non si riesce a immaginare quanti.

Sarebbe interessante registrare il suono delle diverse sirene di polizia, pompieri e ambulanze. A parole non so descrivere i diversi PO e i diversi UAH. Fidatevi: sono assordanti e ammalianti allo stesso tempo.

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Socializzare è facilissimo. Con chiunque. Ti fermi a guardare un cane portato al guinzaglio e ti ritrovi a chiacchierare con il proprietario con estrema naturalezza. Stai appoggiato a un’impalcatura e una ragazza in difficoltà ti chiede se la aiuti a sfilare il giubbotto ché ha le mani impegnate e le si è incastrato su una spalla. Chiedi un’informazione e nessuno si scoccia di dartela. Ti fermi a scattare una foto e un tizio che sta lavando l’auto si ferma per dirti ciao e chiederti da dove vieni e ti racconta di quando suo padre costruì la casa che ora è sua. Tutto ciò è molto bello.

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Al ritorno passiamo sul Queensboro Bridge, in un taxi privato, direzione lo sfigatissimo terminal del JFK destinato agli aerei che volano verso l’Italia. La prospettiva dall’auto, sotto una lieve pioggia, è sintetizzata da questa capa d’aquila disegnata sulla fiancata di un camion di pompieri che si era affiancato a un semaforo.

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New York è bella ed è troppo grande. Non è del tutto adatta agli esseri umani perché non è una città umana. Direi che è sovraumana o, se si vuole, oltre l’umano. Potrei viverci se avessi ventanni di meno, adesso non credo che ce la farei a farcela. Caotica, enorme, veloce, curiosa, varia, variabile, piena di contraddizioni. A New York tutto sembra a portata di mano. Come su un grande schermo, tutto è in superficie. E la New York più bella è proprio quella del cinema, il cinema con il quale sono cresciuto. È Io ed Annie, dimostrazione pratica data a tutti noi sfigati del fatto che potevamo avere le ragazze che volevamo, belle e intelligenti e sorridenti [ma non le modelle!]. È All That Jazz, capolavoro di vita, morte e arte con la non dimenticabile scena iniziale sulle note di On Broadway. È King Kong che prende a schiaffi gli aerei in cima all’Empire State Building nel 1933. È Bob De Niro che, sdraiato sul lettino di una fumeria d’oppio, sorride alla vita che avrebbe voluto avere. È Al Pacino che tratta con la polizia, asserragliato in banca dopo una rapina andata male. È John Travolta che aspetta il sabato come una liberazione, che resta vivo perché balla, vestito di bianco e di nero. È Marlon Brando che impartisce ai suoi figli ordini di morte. È Harry che scopre che l’amicizia tra uomo e donna non esiste. È un gruppo di ragazzi sbandati, una banda giovanile, che scappano di notte verso casa, a Coney Island, che è più lontana della Cina. È Nick Nolte che viene piantato da Rosanna Arquette mentre sta dipingendo un quadro grande come un palazzo. È Dustin Hoffmann con gli incisivi trapanati senza anestesia. È Gene Hackman con il cappellino sempre in testa. Ma sopratutto New York è Montgomery Brogan che si manda a fanculo da solo.

L’unico modo per conoscere un posto, un luogo, una nazione, una città, una montagna è andarci.
A volte non basta nemmeno quello.

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[Grazie a Marinella, Annalisa, Martina, Enrico, Giorgio, Pietro e Carlo, compagni non solo di viaggio]

Esistere – Vivian Maier

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Tanto è brutta, sciatta, non ragionata e male immaginata la mostra di Vivian Maier alla Palazzina di Caccia di Stupinigi [fino al 12 gennaio prossimo], tanto sono belle le fotografie esposte. Un allestimento che sa di improvvisato, nelle vecchie cucine della Palazzina, più da ripostiglio che da esposizione. È un peccato l’illuminazione delle fotografie ed è un peccato la loro disposizione, troppo vicine tra loro oppure appoggiate a un muretto in penombra e con i fari disposti alle spalle dei visitatori. Nessuna logica, nessuna cronologia. Ed è un peccato che il video documentario su Vivian Maier venga proiettato in un angolo inadatto, lì nei sotterranei, con i sottotitoli in italiano coperti dalle teste di chi ti siede davanti e la guida che dietro di te istruisce a voce altissima il suo gruppetto di visitatori. Quella stessa guida che chiede gentilmente a chi non ha pagato di non seguirla [non la sto seguendo, ma dove vado, di grazia fiorita, che qui non c’è posto?].
È tutto un peccato, perché le foto sono bellissime. Se poi fossero disposte in ordine cronologico di scatto testimonierebbero un percorso artistico e un’evoluzione stilistica che così sono solo intuibili con fatica. Il bello del lavoro della signora Maier sta nella sua spontaneità, nella mancanza di sovrastrutture. Guardo il mondo, lo immagino in un rettangolo, scatto. Clic.
Sono ritratti, scene di vita quotidiana, persone. Ma anche oggetti, mani, bambole gettate via in un cestino, cataste di giornali della domenica pronti per essere venduti, muri, insegne, ponti, automobili, Kirk Douglas.
La storia di questa donna di cui non si sa quasi nulla, nata nel 1926 e abbandonata dal padre a quattro anni, vissuta prima con la madre tra Stati Uniti e Francia e Canada e dopo da sola lavorando come bambinaia per vivere e fotografare fino alla morte nel 2009, è una storia di misteriosa normalità, sotterranea e romanzesca, da letteratura statunitense di inizio millennio. Una storia di silenzio, una storia sordomuta. Una storia raccontata dal  rigattiere che un giorno per caso comperò il contenuto del deposito dove la signora Maier custodiva le sue cose e per il quale non aveva più pagato l’affitto negli ultimi anni della sua vita. Da lì la scoperta dei bauli pieni di foto e di rullini ancora da sviluppare [?!]: il tesoro.
Le fotografie rivelano grande talento compositivo e uno sguardo profondo sulla realtà, ma anche abilità tecnica, con l’ossessione degli specchi, i giochi di riflessi [la molteplicità del reale], le ombre. Molti gli autoritratti, nei quali Vivian Maier non sorride mai. Il più delle volte la sua è un’immagine riflessa da una vetrina o da uno specchio, anche scomposta e presentata da più angolazioni con diversi dettagli. Altre volte è un simulacro di sé fatto di cappotto e cappello. Spesso si tratta della sua ombra, che ruba lo spazio chiuso dell’immagine entrandovi, che si adagia su un prato fiorito o che copre un manifesto pubblicitario [Il Paradiso Può Attendere]. L’ombra, che rivendica la presenza della persona, che afferma la sua esistenza in vita al di fuori dell’immagine stampata. L’ombra. Quella che ci fa dubitare, quella che fa sì che ci chiediamo: ma Vivian Maier è vissuta davvero?

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