ma se dico che mi ha colpito la sua poetica e tenerezza dietro a tanta fermezza, Nicoletta s’incazza?”
[ilaria liparesi]

“mi piacerebbe poter dare una visione di produttore che sa quello che fa, invece non so mai un cazzo di quello che faccio”
[nicoletta bocca]

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nicoletta sorride molto. anche quando dice cose importanti, sopratutto quando dice cose importanti, pesanti. ti guarda negli occhi, sorride e dice. con calma, senza urlare.
ha una visione chiara. è lucida, di una lucidità che si incontra di rado [chi parla bene pensa bene], ed è libera. ha tante cose da dire che le affollano i pensieri e riesce a tirarle fuori tutte, una dopo l’altra. te le mostra stendendole come si fa con la tovaglia sulla tavola, mettendoci sopra in ordine i piatti, sotto quello piano, sopra quello fondo, poi le posate, mi raccomando il coltello va a destra, i bicchieri. pure il tovagliolo. ci sediamo e si può cominciare.
a mangiare, bere, ascoltare, discutere.
i vini [quarantacinque persone sedute a quella tavola: provate a immaginare quanto vino ha portato. in litri]:
– dogliani superiore, vigne dolci 2016 (da uve dolcetto)
– coste di riavolo 2013 (da uve riesling e gewurztraminer, in magnum)
– san fereolo 2006 (da uve dolcetto, in magnum)
– il provinciale 2007 (da uve nebbiolo, in magnum)
– austri 2007 (da uve barbera, in magnum)

“san fereolo era il luogo della mia identità, dove capire chi ero. quando ci sono arrivata volevo esprimere la mia identità. oggi so chi sono. con il san fereolo ho mostrato quello che volevo a proposito del dolcetto, ma non frega a nessuno. l’ho fatto per servire il territorio, ma il territorio non risponde, non mostra interesse. forse per paura, forse per pigrizia, tutti continuano a produrre il dolcetto tradizionale. oggi vorrei che venisse qualcuno da fuori a dare una mano. se il territorio non risponde che senso ha impuntarsi? meglio fare un passo indietro. forse i tempi non sono maturi.
quando fu avanzata la richiesta della docg per dogliani, i barolisti si preoccuparono e si lamentarono. siamo vicini, ma loro temevano che l’attribuzione della docg al nostro dolcetto togliesse loro qualcosa. non è così e la docg era necessaria. a barolo non capivano che per noi era una questione di sopravvivenza, non di vino migliore e peggiore. era una questione politica e sociale. da noi le campagne vengono abbandonate. i contadini espiantano le vigne aprendo la strada ai barolisti che comprano a buon prezzo e piantano nebbiolo per il langhe. così dogliani rischia di diventare il serbatoio dei vini che non possono diventare barolo. se questa è l’unica possibilità che il nostro territorio ha per continuare ad esistere come territorio di viticoltura, ha senso opporsi? io credo che il fatto che il tuo terreno a dogliani valga troppo non sia un bene per il doglianese. oggi lo vendi ma domani non sarai più in grado di ricomperarlo o solo affittarlo. e intanto i giovani a dogliani sono spariti dalle campagne. anche i figli dei produttori spesso non mostrano l’etica del lavoro che avevano i loro padri. pochissimi hanno fatto la scuola enologica e l’istruzione è importantissima, fondamentale per le persone e per la comunità.
il nome del vino, dogliani, è indispensabile. non dolcetto, ma dogliani. è un nome giusto. si parla forse di nebbiolo di barolo? in questa cosa credo fortemente e quando credi in qualcosa devi perseguirla con tutte le forze. non mi frega niente della convenienza, ma è importante che il territorio sia identificato con questo nome.
il conflitto con i barolisti c’era e c’è. ma fermo restando il fatto che chi ha un privilegio vuole mantenerlo, il problema sei tu, doglianese, che non credi nel tuo territorio. il barolo vuole tutta la scena per sé, ma sbaglia. le alternanze sono parte del senso di una società. lo vediamo anche a tavola, dove il barolo non è che vada bene sempre, con ogni piatto. se mangi pane e salame in un pic nic il barolo non va bene.
da noi sta succedendo qualcosa di simile alla borgogna, dove c’è quasi solo pinot nero. ma noi resistiamo. ci sono quelli che dicono che è un bene che ci sia tanto nebbiolo mediocre a dogliani, perché chi rimarrà a fare il dolcetto lo farà buonissimo”.

altrove si parlerebbe dei vini della serata. qui pochi spunti, perché mi interessa dire altro e perché il mio riferimento quando parlo di vini è sempre il gusto, che è mio e personale. non è la bibbia, sono pure ateo.
il vigne dolci ha una finezza che, riscontrata un anno fa, si è ora fatta vera eleganza [merito forse di quella vigna nuova a rocca cigliè, in alto, incastonata tra la terra, il cielo e il mare], con una speziatura che può far pensare a un pin… non l’ho detto! non l’ho detto!
il coste di riavolo è un vino buono, che si beve con piacere e che ho però preferito in altre annate.
il provinciale è una goduria per chi ama il nebbiolo, è un nebbiolo di corpo e agilità. ed è forse questa la caratteristica di tutti i vini di nicoletta: materia in movimento [e anche imprevedibilità: preciserò più avanti]. mi ha fatto pensare [memoria dannata, dannata memoria] a un langhe nebbiolo che amo molto, di altra zona, e che non citerò.
l’austri è la [una delle] barbera che bisogna bere per capire quanto questa uva sia sottovalutata. il vino di trinchetto, papà di braccio di ferro, invecchia benissimo, anche meglio di alcuni barolo. quelli che dicevano, nel 2007, che era l’annata perfetta per la barbera, avevano ragione due volte.
e poi c’è il san fereolo.
nella mia esperienza i vini di nicoletta a volte sono stati divisivi. ho sentito/letto qualche parere negativo sul san fereolo anche da bevitori di una certa esperienza. vero è che le critiche si concentravano non tanto sulla qualità del vino quanto sulla distanza dallo stile degli altri dolcetto prodotti nella zona. forse sono io che non riesco a vedere il problema nel costituire un unicum. anzi, a me sembra una bella cosa.
è un vino che ho assaggiato la prima volta ad una degustazione di go-wine sul dolcetto di sette o otto anni fa. lo ho sempre trovato quantomeno molto buono mentre in alcune annate è proprio fuori categoria, detto alla francese. supera la tradizione, resta fedele alla terra.
marco arturi ha parlato dell’imprevedibilità del san fereolo. lui [o forse era un suo amico di pisa] lo riconosce anche alla cieca per questa caratteristica. l’imprevedibilità in un vino naturale è il contrario della serialità, che a dispetto delle chiacchiere e delle convinzioni sbandierate da tanti produttori spesso è la regola [“anche nei difetti”].
l’intuizione di nicoletta è stata quella di capire che l’uva dolcetto poteva dare molto di più dei vini semplici e di pronto consumo tradizionali, che era possibile trarne un vino da invecchiamento lungo e felice. lo dimostra il san fereolo 2006, servito in magnum. un mostro.
“il 2006 subì un arresto di fermentazione. non sapevo cosa farne. l’ho lasciato lì e dopo due anni la fermentazione è ripartita da sola. il vino ha trovato la sua strada.
credo che per il vino naturale non si debba avere fretta. non basta coltivare in modo naturale e vinificare in modo naturale: bisogna lasciare tempo al vino”.

la serata è terminata e io mi riprometto di ricominciare a bere con costanza e concentrazione il barolo di serralunga. per capire qualcosa sulle differenze con il provinciale e, forse, anche qualcosa di vino.

“non ho rimpianti, assolutamente, ma la fatica è tanta. certo, rifarei tutto. non potrebbe essere diversamente”

molo di lilith, torino, martedì 20 novembre 2018