qualche settimana fa ci ha lasciati severino cesari.
chi era.
di mestiere faceva l’editor ed era uno di quelli bravi, quelli che fanno sì che certi scrittori mediocri appaiano quasi bravi ai lettori.
[che certi scrittori bravi appaiano bravissimi ai lettori].
non lo conoscevo. avevo letto di lui e da lui cose stimolanti. mi hanno colpito i ricordi pubblicati dai molti con i quali aveva lavorato o che sono stati, semplicemente, suoi amici. li ho letti con attenzione e ci ho pensato su. io, che vivo la contraddizione perenne tra l’attrazione per l’umano e la repulsione verso l’umanità.
più di tutti, e qui vengo al punto, mi ha fatto riflettere tommaso pincio, ineffabile scrittore romano che ha scelto di presentarsi ai suoi lettori con uno pseudonimo, analogo a quello di un noto scrittore americano.
[non conosco nemmeno lui, di corsa].
pincio ha ricordato un incontro avvenuto tempo addietro a roma.
cesari è già malato. in un mercatino ha comprato dei libri letti. troppi perché sia in grado di trasportarli fino a casa. pincio lo accompagna portando le sue sporte cariche e i due si allontanano insieme. chiacchierano.
scrive pincio:
“Io portavo le buste pesanti, lui procedeva lentamente, ma quello debole ero io, non lui”.
è una frase già sentita in casi come questo. ma qui l’ammirazione per la forza d’animo di chi si avvia serenamente verso la morte diventa pretesto per una riflessione ammirata sulla vita.
“[…] con quale spirito affrontava la prova della malattia, che per lui non era affatto una prova. Quando me ne parlò la prima volta la definì un’opportunità e da come ne parlò sembrava perfino grato. Mai sarei stato capace di parlare in quel modo. Per questo il debole ero io: perché io sono uno che maledice il mondo per infinitamente meno, come tanti”.
lo facciamo tutti. bestemmiamo per un semaforo che non scatta al verde o per un laccio di scarpe che si spezza, per un figlio che torna a casa alle cinque del mattino di soppiatto o per la meschinità di un cliente.
“Ma Severino non era uno come tanti e non parlava di opportunità per farsi coraggio, per autoconvincersi. Parlava di opportunità e con un sentimento di gratitudine perché quello era il suo modo naturale di porsi di fronte a qualsiasi cosa, a cominciare dai libri. Per lui fare l’editore significava soprattutto ascoltare e ogni volta che ascoltava, ogni volta che la sua attenzione si soffermava su un dettaglio, veniva colto da uno stupore grato”.
alla fine moriamo tutti. però vivere conta. conta tanto. chi ha avuto modo di leggere le parole di cesari su fb, anche quando parla del tumore che lo aveva colpito, non può non riconoscere ed identificare la gratitudine e lo stupore di cui dice pincio.
“C’è forse un modo migliore di vivere la propria vita? Spesso quando pensiamo alla felicità, ci immaginiamo momenti di spensieratezza, di puro godimento, di riparo da qualunque problema o angoscia o delusione. Ma se guardiamo negli occhi questa cosa che chiamiamo felicità, ci rendiamo conto che i momenti in cui siamo davvero felici sono quelli in cui siamo grati per qualcosa, perché quando si è davvero felici è impossibile non sentirsi anche grati. Severino viveva costantamente in questo stato di stupore per la meraviglia del mondo e sentirsi grato era perciò il più naturale dei sentimenti per lui. Io non sarò mai capace di tanto, ma posso almeno essere grato a Severino per avermi mostrato qual è la strada”.